Diplomatic Bag

è volutamente un flusso continuo di citazioni, immagini, curiosità, bizzarrie, progetti, testi e gesti che rappresentano il cammino, in modalità soggettiva, verso le mie “opere”.  Un cammino/processo nel quale è possibile ricercare una narrazione autentica di un’esperienza estetica non convenzionale.

Un “MerzBau” (1) contemporaneo per resistere alla caduta nel tempo.

Una “WunderKammer”, in realtà aumentata, dove l’accumulo procede per mimesimetessiparusia e koinomia(2).

Una poesia la cui forza è nella capacità di costruire il senso di una quotidiana convivenza con la “fine”.

È un viaggio privo di scopo, triste e insieme promettente, duro e assurdo, sciocco e drammatico, lieve e profondo, nessun tormento e nessuna estasi, a tenerlo in vita l’unica e fedele compagna …l’ansia.

Nessuna gerarchia negli “eventi”, si susseguono secondo affinità deliberatamente fortuite, di parentela o di riflessioni elaborate fino a toccare affinità di tipo onirico.

Una Drammaturgia di aneddoti, piccoli gesti, racconti brevi, e pensieri ricorrenti e ossessivi, in una sorta di festa funebre che diventa alle volte una sorta di ‘scampagnata’.

Se apparentemente può risultare arbitraria e non esaustiva, in realtà ha forma di un racconto coerente di un’occupazione del tempo non occupato “artisticamente” (3).

lL racconto di una vita che ha deciso, liberamente, dove, come e quando finirà e di differire, a dopo la sua fine, l’opera d’arte.

Un memento mori (4) costante e continuo.

Un esoscheletro.

Una statua interiore.

 Data inizio 1.10.2014.  L’accumulo procede libero,  non a cadenze regolari.

                       (1) Kurt Schwitters (1927)

                       (2) MIMESI: imitazione (le cose= copie delle idee, idee= modello delle cose)

                             METESSI: partecipazione (le cose partecipano all’idea)

                             PARUSIA: presenza (nelle cose è presente l’idea)

                             KOINOMIA: comunanza (la cosa ha qualcosa in comune con l’idea) 

                        (3) realizzazione di oggetti/opere o oggetti culturalizzati.

                        (4) “ricordati che devi morire”

Lucy Glendinning, “Feather bambino 4”,  2010-2012

Henri Michaux

Altrove

«Altrove è una delle opere più felici di tutto questo secolo. Pubblicato nel 1948, in quasi sessant’anni ha preso sempre più sapore ed è diventato un libro senza tempo, come a pochi succede.
Descrive paesi immaginari, come quelli evocati da antichi cronisti, da antichi viaggiatori fantastici. Molti di questi paesi però sono quelli delle nostre fissazioni, dei nostri vaneggiamenti morali. Ogni paese serve a descrivere un temperamento.
Si sente l’eco d’una vocazione etnografica, che l’autore ha seguito in gioventù. Ma anche quando parla di paesi che ha visitato davvero, in altri libri molto insoliti, Michaux lascia andare le frasi dove vogliono loro: non le frena con l’avarizia dell’intellettuale che vuol sempre confermare le sue idee.
Allora ogni frase diventa una acrobazia immaginativa, una specie di volteggio sul trapezio delle virgole. E tutte queste acrobazie sono comiche, naturali – “naturali come le piante, gli insetti, naturali come la fame, le abitudini, l’età, gli usi, le consuetudini…”
In tutti i libri di Michaux la scrittura sembra qualcosa che viene fuori come una secrezione naturale, come la bava delle lumache, come la tela del ragno, come un porro sulla pelle, o come gli escrementi che ogni giorno evacuiamo. Si sente che non c’è mai il problema di dimostrare qualcosa, ma solo di lasciar fluire una secrezione che lascia tracce sulla pagina.
Perciò a momenti è così rasserenante. Perché in lui non c’è niente dell’“artista creatore”, niente di queste pretese di serietà artificiale. Lui lascia andare avanti le frasi per vedere cosa si inventano.
Ma mentre un mercato di professionisti ci scaraventa addosso mattoni con centinaia di pagine da leggere in fretta per arrivare alla fine inebetiti, Michaux spesso ci lascia lieti e sazi con poche righe».

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©M.M.

Teatro Degli Alberi Uomo e Degli Uomini Cervo,  Agosto 2016

Douglas R. Hofstadter

Godel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante

Certi libri hanno un valore di soglia: dopo che sono apparsi, molte cose ci si rivelano in prospettiva, e retrospettivamente, diverse. Quando Gödel, Escher, Bachvenne pubblicato in America, nel 1979, si presentava come un oggetto irto di stranezze e difficoltà, a cominciare dal titolo. Entro pochi mesi, alcune centinaia di migliaia di copie erano state vendute e il libro appariva esattamente come l’opposto: un libro chiarificatore, capace di illuminare in tutte le sue connessioni un immenso groviglio di temi che ci accompagnava, ci ossessionava da tempo e ora affiorava nella sua interezza davanti ai nostri occhi, come un’isola corallina. Quel groviglio è l’oggetto di studio per una disciplina che affascina tutti e che nessuno osa definire: l’intelligenza artificiale. La gente del mestiere per lo più conviene che la migliore definizione dell’intelligenza artificiale sia quella data da Tesler: «L’intelligenza artificiale è tutto quello che ancora non è stato fatto». In breve: tutto ciò che le macchine hanno imparato a fare, e che (prima che lo facessero) era ritenuto segno di comportamento intelligente, non viene ritenuto più tale una volta che le macchine lo fanno. La vera essenza dell’intelligenza sembra essere così, per definizione, sempre un passo più in là. E ormai quel passo più in là ha condotto i teorici dell’intelligenza artificiale ad aggirarsi fra le più antiche questioni metafisiche, che si presentano in fogge e maniere sconcertanti, come i personaggi che Alice incontra nel mondo di là dallo specchio. Una prima, preziosa mappa di quel mondo ci è offerta appunto da quel «labirinto armonico» che è Gödel, Escher, Bach.

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Gino Gianuizzi,  “29 Marzo 2016”, Link.

The Residents sono un gruppo di musica sperimentale statunitense attivo dalla prima metà degli anni settanta.

I membri del gruppo non hanno mai mostrato la loro vera identità al pubblico (fatto rarissimo nel mondo del rock), ed è dunque possibile che nel corso degli anni si siano avvicendati numerosi musicisti nelle vesti dei quattro componenti della formazione. Fedeli ad una propria rigida etica “alternativa”, si sono sempre autoesclusi dai circuiti di musica commerciale.

I loro album, che fondono rock, musica elettronica, noise, vaudeville, musica sperimentale e montaggi sonori, si dividono principalmente in due categorie: opere basate sulla “decostruzione” dissacrante della musica pop e rock occidentale (come nel caso di (I Can’t Get No) Satisfaction dei Rolling Stones, destrutturata un anno prima che lo facessero i Devo), e complesse opere concettuali, composte intorno ad un tema, una teoria oppure una trama. Celebri sono i loro testi surreali e spesso provocatori, nonché le sonorità che rifuggono lo schema della composizione convenzionale.

Durante i concerti, che possono essere talvolta delle performance multimediali, i membri del gruppo di solito si presentano indossando cilindro, frac e una maschera grottesca (quella più celebre rappresenta un gigantesco bulbo oculare).

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Cosimo Terlizzi,  LA BESTIA, 2016, durata 7′, immagine tratta dal film. 

Martin Margiela (Genk, 9 aprile 1957) è uno stilista belga.

Ha svolto i suoi studi presso la Royal Academy of Fine Arts ad Anversa fra il 1977 e il 1980. Ha lavorato dapprima come designer freelance, in collaborazione con stilisti come Jean-Paul Gaultier e, dal 1988, su collezioni proprie.

Considerato un nome di riferimento nel campo della moda d’avanguardia, lavora sul concetto della decostruzione degli abiti per dare loro nuovi significati, rifacendosi alla libertà sartoriale degli anni ’70 piuttosto che allo standard conservatore degli anni ’80 in cui inizia la sua carriera e privilegiando la creatività e il recupero anziché seguire un’idea di moda come lusso e ostentazione. Decostruzione degli abiti significa ad esempio tagliare e rimontare insieme parti di abiti vecchi, mettere in mostra fodere e parti interne, staccare e rimontare le maniche in modo nuovo. Questa concezione riprende ed amplia la pratica del punk e dello street style del tagliare e strappare t-shirt e jeans. I colori dominanti nelle sue prime collezioni sono colori potenti come il nero, il bianco e il rosso.

Maison Martin Margiela ha partecipato anche a diverse mostre in musei. Una mostra spesso citata è “Martin Margiela (9/4/1615)” organizzata al Museum Boijmans van Beuningen, Rotterdam (11.06.1997 – 17.08.1997). Curata da Thimo te Duits, questa mostra problematizza l’idea della moda nel museo. Per questa occasione, Maison Martin Margiela crea diciotto vestiti che riproducono alcune creazioni passate della Maison. Questi abiti sono create in color bianco, crema e grigio e vengono inseriti in box di legno dove viene creata una specie di micro-sistema di batteri e muffe che intervenendo sugli abiti, li trasformano sia nel colore che nel tessuto. I box sono situati all’esterno del museo ma possono essere visti solo dall’interno del museo. In questa maniera, la mostra contestualizza la presenza dell’abito nel museo e le difficoltà di conservazione che i musei debbono affrontare.

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La Foresta Che Cammina degli Uomini Alberi – Satriano-

Emil M. Cioran  (Rășinari, 8 aprile 1911 – Parigi, 20 giugno 1995) è stato un filosofo, saggista e aforista rumeno, tra i più influenti del XX secolo.

Emil Cioran fornisce al suicidio una lettura totalmente inedita. Esso, anziché costituire l’espressione massima di disillusione e disperazione di fronte ad un’esistenza invivibile, è paradossalmente ciò che consente la vita. Ciò è possibile nella misura in cui l’esistenza è percepita in termini assoluti come lacerante costrizione inevadibile; in tale prospettiva, il suicidio rappresenta il carattere più pieno della libertà esercitabile dall’uomo che, nell’impotenza vitale, ha in ogni momento l’onnipotenza della cessazione del Tutto, la negazione estrema di ogni alterità insostenibile. L’uomo, in ultima analisi, può sobbarcarsi il peso della vita solo nella misura in cui sa di poter recarsi la morte.

«Ricordo un’occasione in cui per tre ore ho passeggiato nel Lussemburgo con un ingegnere che voleva suicidarsi. Alla fine l’ho convinto a non farlo. Gli ho detto che l’importante era aver concepito l’idea, sapersi libero. Credo che l’idea del suicidio sia l’unica cosa che rende sopportabile la vita, ma bisogna saperla sfruttare, non affrettarsi a tirare le conseguenze. È un’idea molto utile: dovrebbero farci delle lezioni nelle scuole!»

L’ironia capace di cogliere l’assurdità della vita salva Cioran e i suoi lettori dal pessimismo e dal nichilismo. L’ironia e l’umorismo che l’accompagna rendono tollerabile l’esistenza che talvolta appare paradossale dandole un nuovo senso razionale da cui ricominciare a vivere senza inganni.

«Non c’è nulla che giustifichi il fatto di vivere. Dopo essersi spinti al limite di se stessi si possono ancora invocare argomenti, cause, effetti, considerazioni morali, ecc.? Certamente no. Per vivere non restano allora che ragioni destituite di fondamento. Al culmine della disperazione, solo la passione dell’assurdo può rischiarare di una luce demoniaca il caos. Quando tutti gli ideali correnti – di ordine morale, estetico, religioso, sociale, ecc.- non sanno più imprimere alla vita una direzione né trovarvi una finalità, come salvarla ancora dal nulla? Vi si può riuscire solo aggrappandosi all’assurdo, all’inutilità assoluta, a qualcosa, cioè, che non ha alcuna consistenza, ma la cui finzione può creare un’illusione di vita».

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Ph Elena Ayllon

Antony Hegarty

Nato in Inghilterra, a Chichester, West Sussex nel 1971, Antony Hegarty si trasferì ad Amsterdam nel 1977 per 18 mesi prima di sistemarsi a San José (California) nel 1981. Negli Stati Uniti frequenta una scuola cattolica dove fa parte del coro. Al suo 11º compleanno gli viene regalata una tastiera Casio e si cimenta con le canzoni dei Soft Cell, Kate Bush e Yazoo. Da adolescente fu influenzato dal synth pop britannico, in particolare da cantanti come Marc Almond e Boy George. Attratto dal palcoscenico, frequenta la School for the Performing Arts di San José e l’Università della California a Santa Cruz. All’età di 18 anni mette in scena le prime performance, ispirate a John Waters e all’icona-guru Divine. Attratto dal mondo newyorchese degli anni ottanta, ispirato anche da personaggi come Joey Arias che cantava A Hard Day’s Night vestito da Billie Holiday, si trasferisce nella grande mela. Il “Mondo di New York” risulta essere più consono alla sua sensibilità artistica e alla sua ricerca espressiva incentrata sul tema dell’identità.

Nel 1990 Antony entra nella dimensione che più sente appartenergli, impersonando una drag queen ed esibendosi al Pyramid Club in guêpière, testa rasata e sigaretta fra le dita. Antony (con gli altri componenti del gruppo, i Blacklips) scrive scenari, canzoni, arrangiamenti ed entra in scena in tarda notte come Fiona Blue, drag queen e archetipo androgino ispirato da Klaus Nomi, Leigh Bowery e Diamanda Galas. Nello stesso periodo Antony si laurea in Teatro Sperimentale.

Nel 1995 Antony decide di dedicarsi completamente alla musica, dai Blacklips appena sciolti chiama il batterista Todd Cohen, che insieme a Joan Wasser e Maxim Moston ai violini, Jeff Langston al basso elettrico, Jason Hart al piano e Michele Schifferle ospite al violoncello, formano l’orchestra artefice dei raffinati arrangiamenti delle sue composizioni. Nascono così Antony and the Johnsons, nome ispirato a Marsha P. Johnson, il travestito newyorchese che nel 1970 fondò la casa di accoglienza per travestiti STAR, la cui tragica fine nel fiume Hudson sarà evocata in River Of Sorrow.

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BANDA IONICA – “MATRI MIA”

Venti musicisti fra i migliori picciotti delle province di Siracusa e Catania, incontrano

Arthur H, Cristina Zavalloni, Dani Carbonel, Ermanno “joe” Giovanardi, Lara Martelli,
Vinicio Capossela

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A Musica90 tutto esaurito e grande entusiasmo al concerto dell’ensemble guidato dal trombettista siciliano Roy Paci, con ospiti Arthur H, Vinicio Capossela, Cristina Zavalloni e Joe dei La Crus

GUIDO FESTINESE – il manifesto – 13 aprile 2002

Raccontava tempo fa Pino Cacucci, presentando la sua mostra di fotografie sul Messico profondo, quello delle feste popolari, dei colori sgargianti a dispetto di ogni miseria, del Chiapas, che c’è un solo posto al mondo accomunabile alla terra del Subcomandante Marcos, almeno per un elemento cruciale: la Sicilia.depot_capossela1

Identico l’approccio profondo nei confronti del passaggio limite per ogni essere umano, la morte. La settimana della Passione in tutto il nostro Sud (e non solo) e festa di colore e di emozione.

Festa del lutto, a garanzia che le lacrime dei vivi perpetuano il ricordo di chi se n’è andato, occasione speciale in cui ognuno riesce a scaricare tensioni profonde e malesseri serpeggianti in un pianto emozionato che lava via i rovelli quotidiani. Non importa neppure credere, in fondo: l’importante e essere disposti ad esporsi alla possanza catartica di note e canti. In Sicilia c’è una tradizione profonda di “bande della Passione”: gli strumenti li hanno ereditati dalle bande napoleoniche, le baldanzose marce militari impettite sono diventate, col tramite di Verdi e il sostrato carsico del canto popolare ornato, dolenti spezzoni di suono gonfi di pathos e malinconia: con tutta la potenza di suono che ottoni, legni e percussioni sanno dare assieme.

Un caso esemplare di “invenzione della tradizione”, per ricordare la splendida definizione di Hobsbawn. Adesso si può andare ancora più in la: e la scommessa impossibile e sotto i nostri occhi e le nostre orecchie.

Giovedì sera Musica 90 di Torino ha ospitato al Teatro Regio Banda lonica, l’ensemble diretto dal folletto-trombettista ubiquo Roy Paci per una data unica. Il sottotitolo della Rassegna recita: “dalle nuove musiche al suono mondiale”, e c’è dawero tutto questo e qualcos’altro ancora nello spericolato eppur credibilissimo progetto voluto e creato da Roy Paci assieme all’amico Fabio Barovero e Josh Sanfelici.

Quasi duemila persone in sala, centinaia fuori dalle cancellate, tante facce di giovani e giovanissimi: davvero è successo qualcosa, nel mondo di chi ascolta e consurna musica, se un concerto trasversale e a rischio come questo e preso d’assalto. Continuerà l’italietta di Sanremo: ma saranno più forti le ragioni di chi crede alla praticabilità di altre strade. Come questa proposta dalla Banda Ionica con il magnifico disco presentato in concerto, Matri Mia. Dedica a quella atavica “gran Madre mediterranea” che ha fatto da nutrice a tutti gli dei e le credenze che sono arrivati dopo, gran parata di ospiti chiamati a raccolta in studio per il disco e sul palco del Regio non per vanità o per contare su un nome in più, ma per dare la stura a un incendio emozionale possibile e non ancora pensato.

Parte da solo con la sua Banda Ionica Roy Paci: sono le note da fiume in piena di Per Domenico Morelli, e poi quelle di Jone: vanno a. smuovere grumi emotivi che non sappiamo neppure più di avere. Poi due chierichetti accompagnano in sala Cristina Zavalloni, fascinosa chanteuse dell’avanguardia classica e jazzistica, una voce che e cristallo e ironia.

Non è potuto arrivare il rocker spagnolo Macaco El Mono Loco, e allora affronta lei Espinita, ponte musicale possibile fra la Sicilia e tutti gli altri Sud del mondo: e sul finale, confortato dagli ottoni tonanti della Banda Ionica -Roy Paci prende la tromba e regala un turbine di note lacerate, strappate, come brandelli di stoffa al vento: faceva cosi Lester Bowie, e un pezzo di lui rivive nel mercuriale siculo che non ha paura di sporcarsi le mani e le idee con le musiche più diverse. Sul palco poi arriva Ermanno “Joe” Giovanardi dei La Crus: e un brandello onirico e perlaceo la sua Come l’aria. Lui cerca di sdrammatizzare, ma la tensione in sala è palpabile, la voce fragile un pendant perfetto al turgore dolente degli ottoni. Quando poi torna sul palco Cristina Zavalloni e una festa espressionistica, con lo struggimento di Mi votu e mi rivotu ( resa celebre tanti anni fa da Rosa Balisteri) imprevedibilmente convogliato dal siciliano al tedesco: come se Kurt Weill avesse scelto una Festa della Passione per far vedere quanto e buffo e atroce il mondo. Spazio a Arthur H, sul palco: Raissa vede la Banda Ionica ondeggiare in una sorta di sghembo proto-reggae, la voce e quella di un Tom Waits in vena di dolcissime malinconie.


Non è finita, il colpo di teatro finale lo assesta Vinicio Capossela: deve cantare Santissima dei Naufragati, un testo che e autentica poesia dello strazio, e lui arriva ondeggiando in uno scheletro di barca coi lumini accesi (“accesi sui pennoni i fuochi fatui / i fuochi alati / della Santissima dei Naufragati”, dice il testo), la feluca sghemba da marinaio, la voce che sembra quella di un serpente marino, con un ritornello che e una botta nello stomaco.

Applausi attoniti e felici. Lui riattacca con un bastone in mano a scandire il tempo, la tuba in testa, questa volta: Marcia del Camposanto. La festa della Banda Ionica è finita, il pubblico è tutto in piedi. Roy Paci torna, e con un sorriso malizioso annuncia il bis: Marcia Funebre.

Don DeLillo, all’anagrafe Donald Richard DeLillo (New York, 20 novembre 1936), è uno scrittore, saggista, drammaturgo e sceneggiatore statunitense.

 

 

DeLillo è nato e cresciuto nel Bronx (N.Y.) da genitori italiani emigrati subito dopo la Grande guerra da Montagano, in Molise.

Frequenta scuole cattoliche fino agli studi universitari; l’influenza degli studi cattolici traspare in molti dei suoi scritti e principalmente in Underworld (1997).

Finiti gli studi, inizia a lavorare come pubblicitario e ad interessarsi di arte e musica, particolarmente al jazz e alla scrittura. Nel 1971 pubblica il suo primo romanzo,Americana, tradotto in italiano solo nel 2000. Nel 1972 pubblica End Zone, tradotto in italiano nel 2014, e l’anno successivo Great Jones Street (tradotto in italiano nel1997) che narra di un artista rock ritiratosi a vivere in un ambiente spoglio.

Alla fine degli anni settanta intraprende un lungo viaggio formativo in Medio Oriente e in India; successivamente si trasferisce in Grecia, dove vive per tre anni e scrive il suo ottavo romanzo, I nomi, che ha un buon successo come thriller psicologico. Torna quindi negli Stati Uniti dove scrive Rumore bianco (White Noise) con cui, nel 1985, vince il National Book Award. Viene ascritto al cosiddetto postmodernismo insieme a Thomas Pynchon, Philip Roth, David Foster Wallace e Paul Auster.

Osservatore acuto della società americana nel passaggio di millennio e del suo immaginario collettivo, descrive la realtà che lo circonda con una scrittura in cui racconta la società attraverso i media, la religiosità, i riti profani e le liturgie della politica comprese di intrighi tesi alla conquista del potere.

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Romeo Castellucci  ” Parsifal”

L’importanza di ciò che non si percepisce.

Viviamo in una bolla satura di suoni e rumori.

La moltiplicazione inarrestabile degli oggetti, delle informazioni, delle sollecitazioni sensoriali fa sì che l’uomo d’oggi si trova a vivere in un “troppo pieno”, in un “troppo rumore”.      

Ci troviamo di fronte a un colossale “inquinamento immaginifico”: l’eccesso di stimolazioni visive e auditive ha fatto sì che non resti più nulla di libero da segni, segnali, indici. L’effetto è quello del frastuono, del rumore frastornante, perfino quando è musica.

L’ipertrofia segnica ha raggiunto un parossismo per cui avvertiamo (o meglio dovremmo avvertire) sempre di più la necessità d’una pausa immaginifica.

SHHHH!

Il silenzio è percepito erroneamente come un vuoto, un’assenza, una “non-vita”, la paura che questo fantasma  si presenti a noi fa sì che altri nuovi suoni vengono prodotti, suoni per colmare e anestetizzare temporaneamente la paura del vuoto-silenzio.

Il silenzio assoluto non esiste.

Anche il silenzio è una presenza, esso è parte integrante della vita e quindi ha sempre un significato e un valore.

Occupati ad allontanare il fantasma il nostro orecchio si è fatto sordo, ignorante, intrappolato in un Horror Pleni che pochi avvertono e che tutti invece dovrebbero temere. Urge una pausa, tornare a sentire ciò che non si percepisce, un silenzio costituito da molteplici suoni, i suoni esistenti, quelli dell’ambiente in cui ci troviamo, del nostro cuore e del nostro corpo.

CONCERTO DI SILENZIO N° 1 :  l’intervallo perduto tra un frastuono e l’altro   www.festivalofsilence.eu

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Arthur Cravan

nato Fabian Avenarius Lloyd (Losanna, 22 maggio 1887 – 1918) è stato un pugile e poeta inglese, personaggio sopra le righe e un idolo dei movimenti Dadaista e Surrealista.

Cravan nacque e fu educato a Losanna, in Svizzera. Passò quindi in un’accademia militare inglese dalla quale venne espulso per aver schiaffeggiato un insegnante. Successivamente alla fase scolastica, durante la prima guerra mondiale, viaggiò tra l’Europa e l’America usando diversi passaporti e documenti, alcuni dei quali falsi. Dichiarò di non avere una sola nazionalità, ma di essere “cittadino di 20 paesi”.

Cravan si fece conoscere come personaggio eccentrico e critico d’arte, benché fosse più interessato a sfoggiare uno stile potente e personale piuttosto che disquisire sull’arte. La sua attitudine provocatoria prefigurava, in qualche modo, alcune delle peculiarità del Dadaismo.

Dal 1911 al 1915 pubblicò una rivista di critica, Maintenant! (“Adesso!”), di cui uscirono cinque numeri, che Cravan vende “per i viali di Parigi con un carrettino da fruttivendolo ambulante”. Accorpati, i numeri furono ridati alle stampe nel 1971 da Eric Losfeld col nome di J’étais Cigare, nella collezione dadaista “Le Désordre”. L’obiettivo di Cravan con la sua rivista era di dare scalpore e in un articolo a proposito del salone d’arte del 1912 criticò un auto-ritratto di Marie Laurencin, con degli appunti che mandarono su tutte le furie Guillaume Apollinaire, amante e mecenate della Laurencin, che sfidò Cravan a duello. Al contrario, la sua poesia vibrante e provocatoria e le sue esibizioni pubbliche (che spesso degeneravano in risse tra ubriachi) gli valsero l’ammirazione di Marcel Duchamp, Francis Picabia, André Breton, e altri giovani artisti e intellettuali.

Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale Cravan lasciò Parigi per evitare l’arruolamento. Di passaggio alle Isole Canarie, riuscì a farsi organizzare un incontro di boxe con l’allora campione del mondo Jack Johnson per finanziarsi lo spostamento negli Stati Uniti d’America. I poster dello scontro, che avvenne mercoledì 12 aprile del 1916, parlavano di Cravan come del “campione europeo”. Johnson, che non aveva idea di chi fosse quell’uomo, lo stese al tappeto senza problemi e nella sua autobiografia scrisse che Cravan doveva essere fuori allenamento.

Nel 1913 Cravan pubblicò un articolo sul Maintenant! nel quale sosteneva che suo zio Oscar Wilde fosse vivo e che gli avesse fatto visita a Parigi. Il New York Times pubblicò la diceria, benché Craven e Wilde non si fossero mai incontrati. Dopo essere arrivato a New York nel 1914, dove incontrò la poetessa Mina Loy, Cravan si spostò in Messico tre anni dopo, nuovamente per evitare l’arruolamento. Dopo essersi sposati nel 1918 Craven e la Loy pianificarono un viaggio dal Messico all’Argentina: non avendo abbastanza soldi per entrambi la Loy salpò su una nave e Cravan su una barca diretta in Argentina. Cravan non arrivò mai.

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ANTONIO REZZA 

 Il tempo vola” dice il detto, in un mondo che dipende sempre più dal tempo e in cui il tempo è sempre più unificato.

Un unico gigantesco orologio sovrasta il mondo e lo domina, pervade tutto: nel suo tribunale non esiste appello. L’unificazione del tempo a livello mondiale segna una vittoria per l’efficiente macchina sociale, un universalismo che elimina con determinazione l’individualità.

Perché si lavora? Certo per produrre cose e servizi utili alla società umana, ma anche, e soprattutto, per accrescere i bisogni dell’uomo, cioè per ridurre al minimo le ore in cui è più facile che si presenti a noi questo odiato fantasma del tempo. Accrescendo i bisogni inutili, si tiene l’uomo occupato anche quando egli suppone di essere libero. “Passare il tempo” dinanzi al video o assistendo a una partita di calcio non è veramente un ozio, è uno svago, ossia un modo di divagare dal pericoloso mostro, di allontanarsene. Ammazzare il tempo non si può senza riempirlo di occupazioni che colmino quel vuoto. E poiché pochi sono gli uomini capaci di guardare con fermo ciglio in quel vuoto, ecco la necessità sociale di fare qualcosa, anche se questo qualcosa serve appena ad anestetizzare la vaga apprensione che quel vuoto si ripresenti in voi.

Avvertenze

L’azione NON TI PREOCCUPARE nel farsi in un luogo/spazio lo sacralizza, cioè ne sancisce una alterità, un essere “altro” e “diverso” rispetto all’ordinario, pertanto chiede allo spettatore di divenire pellegrino in un viaggio che va compiuto per devozione o per penitenza, verso un luogo che si fa “sacro”.

Chi parte per questo pellegrinaggio non si trova ad essere, ma si fa straniero.

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Erik Mark Sandberg  “TheWraith”

Cosa sono le reliquie?

La reliquia, in senso stretto, sottintende la salma, o una parte di essa, di una persona venerata come santo, il cui culto è cioè esteso alla Chiesa universale, o beato, il cui culto è invece limitato ad una Chiesa locale, e più in generale di una persona famosa. In senso lato, una reliquia è un qualsiasi oggetto che abbia avuto con i santi una più o meno diretta connessione, come vesti, strumenti del martirio o qualsivoglia utensile da essi adoperato. Si parla invece di reliquie da contatto nel caso di oggetti che hanno toccato altre reliquie del santo. La venerazione delle reliquie è diffusa soprattutto nel Cristianesimo, specificamente nella Chiesa cattolica e in quella ortodossa. Il ritrovamento, a distanza di secoli, del cadavere incorrotto è un elemento che rafforza la fama di santità di un individuo. Si narra pure di corpi che diffondono profumi o trasudano oli miracolosi. In San Pietro, nel giorno di Ognissanti, l’altare della Confessione si riempie di busti reliquiari. La presenza delle reliquie dei santi è poi indispensabile per la consacrazione di un altare, al cui interno vengono cementate. Enormi teche, allestite dietro crocifissi grandiosi, conservano collezioni di ossa dei santi più vari, identificati grazie a bigliettini medievali con su impresso il nome latino del santo.

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© MM

“Kosuth-Guiotto-Mariano” 

Sound Earth

Suonare il paesaggio

L’idea nasce dal presupposto che tutti gli oggetti visibili sono riconducibili a una forma geometrica ed essere ricondotti a una sequenza di punti che, organizzati secondo uno schema algebrico, possono essere letti secondo riferimenti musicali.

L’obiettivo è tradurre in musica la realtà che ci circonda per poterla “ assaporare” oltre che con gli occhi anche con l’udito: la possibilità di ascoltare le forme fisiche e geometriche della realtà che ci circonda.

Il fulcro dell’idea è quindi l’associazione di valori geometrici a note musicali che danno vita a una corrispondenza biunivoca tra l’oggetto e uno spartito musicale.

Il metodo di associazione tra i punti geometrici e le note musicali avviene attraverso una formula matematica biunivoca che mette in relazione forte i dati.

Sound Earth è un software che traduce in musica il profilo morfologico bidimensionale e tridimensionale delle “cose”: paesaggi, strade, confini, strutture architettoniche, dipinti, marchi pubblicitari, ambienti urbani, etc…

Il software acquisisce i dati morfologici dell’oggetto di studio e li trasferisce, attraverso un sistema elaborato ma scientifico, in tempo reale sul pentagramma generando un canovaccio musicale che esprime l’oggetto studiato in una DEDICATA e SPECIFICA armonia.

Le armonie prodotte, andranno quindi successivamente arrangiate dallo stesso software, per rendere “piacevole” il canovaccio.

Opere musicali che identificano ad esempio le Alpi Italiane, la città di Roma, un paese, un parco naturalistico, il profilo di un prodotto commerciale come un auto o la boccetta di un profumo.

Il Primo esperimento

Questo primo studio ha visto il coinvolgimento di un matematico, un esperto di software a cui è stato affidato il primo studio su carta del software ed a un compositore che ci ha aiutato a trovare le corrispondenze, ancora in stato embrionale, delle regole musicali da associare.

Prendendo in esame il tratto di strada Campobasso – Montagano sono state rilevate le quote ed attraverso lo sviluppo di una funzione matematica biunivoca è stato possibile convertire i dati in note musicali elaborando in questo modo un primo rozzo canovaccio musicale.

Il file audio che segue è il risultato.

https://soundcloud.com/michele-mariano-1/cb-mo-pres

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LA PROCESSIONE DI CARLETTO

Attraversare L’Italia a piedi dal Molise al Friuli

Due Asini Due Artisti e L’infimo Inizio

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Un ciclo dell’arte contemporanea si è chiuso. E’ ora di mettersi in movimento!

Un po’ “Armata Brancaleone”, un po’ “Don Chisciotte”, un po’ “Spedizione dei Mille” e un po’ “Marcia su Fiume”, la processione di Carletto ha risalito la penisola per denotare l’”infimo inizio”.

“L’infimo è l’impercettibile inizio del movimento, il primo segno visibile di ciò che è fausto. L’uomo di valore non appena vede l’infimo passa all’azione, senza attendere la fine della giornata” (Confucio, Classico dei Mutamenti)

Un’operazione artistica che ha visto il coinvolgimento di circa 600.000 persone che a vario titolo hanno avuto un contatto con la Processione.

web : www.laprocessionedicarletto.eu    Facebook  laprocessionedicarletto

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L’occasione mancata di TERNA

TUTTO E’ SCRITTO

La rivedrò solo una seconda volta e quella sarà l’ultima, pensavo, mentre quella persona si allontanava dandomi le spalle. Nell’estremo tentativo di scoprire chi fosse il mio sguardo l’ha seguita tutto il tempo, prima che si perdesse tra le altre persone della piazza. Chi è quella persona alla quale ho appena armato la mano, consegnandogli la responsabilità del mio ultimo e fatale atto? L’incontro, stabilito via Mail, è appena finito, sono le 15,35.

Un incontro freddo nella sua rigidità rituale, la scelta della data, la lettura del contratto, la firma. Niente frasi di circostanza né convenevoli, in una busta le indicazioni per entrare al Colosseo e una mappa sulla quale è segnato il punto preciso. All’appuntamento mi sono presentato con largo anticipo, ho scelto il tavolino del bar con la miglior vista sulla piazza, e ho atteso immerso nel giocoso tentativo di individuare la persona tra la folla.  Sono riemerso dal gioco solo quando mi sono accorto che al mio tavolo è seduta una persona, il mio KILLER.

E’ il 19 novembre del 2015, in questo tiepido pomeriggio d’autunno tutto è scritto.

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Shuzo Azuchi Gulliver (1947)

Artista e scrittore giapponese. Il suo vero nome Azuchi Shuzo .

Shuzo Azuchi Gulliver (un nickname datogli dagli amici) vive la sua formazione in stretta relazione con le avanguardie internazionali scientifiche, filosofiche ed artistiche, assume Erwin Schrodinger (1887- 1961) e Marcel Duchamp (1887-1968) come modelli culturali; conosce Allan Ginsberg, Gary Schneider, di cui divenne buon amico, e Joseph Beuys. Nel 1969, a soli 22 anni, i membri giapponesi Fluxus lo invitano ad un evento storico che porterà nella capitale del Giappone: John Cage, La Mont Young, Nam June Paike, Charlotte Moorman, fra gli altri.

Novello Gulliver, e come lui “medico esploratore”, Shuzo Azuchi sonda e coniuga macrocosmi e microcosmi, universale e individuale, organico e inorganico. Nelle sue opere l’unione, o l’accostamento, del macro al micro origina una sensazione di straniamento, di spiazzamento e crea atmosfere sospese nello spazio e nel tempo. Ad esempio nell’opera De-time (in archivio), direttamente ispirata all’opera di Duchamp, i segni e numeri, disegnati con il gesso bianco su una tavola nera, cristallizzati in una dimensione astratta, sembrano piovuti casualmente all’interno del cerchio tracciato a sagoma di orologio.

Sin da principio Azuchi fonde arte, filosofia e scienza, idea i suoi interventi come un work in progress, progetti in continuo divenire che danno vita ad una serie di richiami fra le sue opere più recenti e quelle del passato. Emblematico a questo proposito il progetto Body Contract che procede dal 1973 e che prevede l’affidamento, tramite regolare contratto, ad un’esponente del mondo della cultura internazionale di una delle 80 parti in cui è stato sezionato il suo corpo affinchè si mantenga più a lungo possibile la forma e il colore; o ancora la serie Bank note (in archivio) banconote emesse dalla S.A.G. Bank, di cui Shuzo Azuchi Gulliver è presidente, che possono proliferare all’infinito come cellule, che possono ripetersi ininterrottamente come la sigla ATGC (le iniziali dei quattro amminoacidi che sono costituiscono il DNA) stampata serialmente sullo sfondo della carta moneta che ha valore variabile di 1 occhio, 50 occhi, 2 cervelli, 2 cuori e così via.

Il corpo sezionato nelle sue molteplici parti, il corpo buddista, svuotato, reso tavola su chi scrivere resta il centro della ricerca di un maestro che nel 1992 è stato incluso nella mostra Avanguardie Giapponesi degli anni ‘70 alla Galleria Comunale di Arte Moderna di Bologna.

PROJECT “Body Contract”

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M. Martin Margiela

MY TIME-PERSONAL TIME

È un orologio. L’unità di misura adoperata è il secondo cioè quella porzione di tempo che piu di tutte identifica il movimento rappresentandolo in una scala minimale lontana dalle sovrastrutture della fisica.

L’orologio conta i secondi dal momento preciso della mia nascita e proseguirà l’accumulo sino al momento del mio trapasso, quando sarà fermato.

Ne consegue che il tempo trascorso e che trasorre è il mio tempo, tempo unico/individuale. 

Il Tempo Individuale è una percezione del tempo scandito da un continum di eventi di cui solo il soggetto e capace di leggerli nella loro completezza collocandoli nel continuo essere del suo presente.

Ogni evento è così individuato dalle quattro coordinate dello spazio-tempo e da una “condizione”, lo stato di coscienza e lo stato psichico dell’osservatore.

 Il tempo trascorre in un eterno presente, il presente che solo individualmente percepiamo, a prescindere dalle nostre considerazioni spaziotemporali.

Spazio Tempo

Con l’accettazione da parte della comunità scientifica della teoria della relatività è stato demolito il concetto di spazio e di tempo assoluti e separati l’uno dall’altro, mentre ha preso il suo posto il concetto di spaziotempo, nel quale non c’è un sistema di riferimento privilegiato e per ogni evento le coordinate spaziali e temporali sono legate tra di loro in funzione dello spostamento relativo dell’osservatore. Con l’assenza di un tempo assoluto, anche il concetto di contemporaneità è stato modificato: si può definire al suo posto l’altrove assoluto, cioè l’insieme degli eventi che non appartengono né al futuro né al passato, al di fuori cioè del cono di luce.

Per spaziotempo (indicato anche come spazio-tempo o cronotopo) si intende uno spazio quadridimensionale, composto dall’usuale spazio a tre dimensioni con il tempo come coordinata aggiuntiva.

Lo spazio-tempo è quindi un concetto fisico che combina le nostre classiche nozioni tradizionalmente distinte di spazio e di tempo in un solo costrutto unico e omogeneo. L’introduzione dello spazio-tempo è una conseguenza diretta della teoria della relatività ristretta che stabilisce un’equivalenza fra lo spazio e il tempo.

Così come nella nostra visione classica dello spazio le sue tre dimensioni componenti (avanti-dietro, destra-sinistra e alto-basso) sono equivalenti e omogenee fra loro e relative all’osservatore (ciò che viene considerato avanti o dietro da un osservatore può essere considerato destra o sinistra da un altro osservatore disposto diversamente), la visione relativistica assimila anche la dimensione temporale (prima-dopo) alle tre dimensioni spaziali, rendendola percepibile in modo diverso da osservatori in condizioni differenti.

I punti dello spaziotempo sono detti eventi e ciascuno di essi corrisponde ad un fenomeno che si verifica in una certa posizione spaziale e in un certo istante.

Il tempo quindi è la dimensione nella quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi.

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Nonostante l’evoluzione delle forme ed espressioni artistiche nell’ultimo cinquantennio, continuano a sussistere interrogativi che valevano tanto nell’Arte antica quanto in quella moderna e contemporanea.

Infatti elementi quali l’oggettualità, il luogo e lo spazio e per finire il tempo, sembrano essere imprescindibili quando si parla di Opera d’Arte e del suo contesto. Per quanto un artista sia attuale ed innovativo, sente comunque il bisogno di concretizzare la propria opera definendola in un oggetto, quindi renderla fruibile. Che si tratti di foto, video, installazione, suono, comunque l’opera deve materializzarsi in qualcosa che ne rappresenti l’idea e l’intenzione. 

Poi c’è l’ufficialità del luogo di destinazione o quanto meno la sua ufficializzazione in funzione di un determinato evento. L’Arte infatti è ancora lontanissima dallo slegarsi dai luoghi che per tradizione la ospitano, vale a dire gallerie, musei, fondazioni e così via. C’è naturalmente l’eccezione di episodi di arte urbana o creata nel paesaggio, ma sempre con la premessa di una promozione ufficiale dell’evento qui ed ora. Senza considerare che normalmente gli artisti che lavorano fuori dagli spazi convenzionali, quasi sempre sono comunque rappresentati da gallerie e simili.

Terzo tema portante di discussione è argomento raramente o mai trattato, se non altro per essere quanto meno insolito: la contemporaneità (intesa come simultaneità) dell’Opera e del suo autore.

Può capitare che un artista dopo aver prodotto opere meritevoli, diventi noto solo dopo la sua morte, oppure – più spesso ai giorni nostri – quando ancora vivo ed attivo. Ma non si è mai ipotizzata un’opera che nascerà solo dopo la scomparsa del proprio autore, perché per sua natura non può che essere così. E’ come una sorta di proiezione di un’idea che si materializza nel futuro perché non può esistere nel presente. Questo elemento implica numerosi ragionamenti, il primo dei quali è a proposito di un artista che vive la sua condizione creativa e professionale fondando l’esperienza su qualcosa che non è ancora accaduto e che comunque non accadrà finché lui sarà in vita.

Da queste premesse non voglio trarre conclusioni e tesi, né voglio completare l’elenco delle possibili riflessioni. Si tratta solo di accenni ad un inizio di discussione che, ci si augura, darà luogo nei prossimi anni a numerosi sviluppi.

Al di là della specificità di COLLAGE PROJECT e TRIGGER, il comune denominatore resta comunque la possibilità di ricreare dall’inizio l’idea stessa non di Arte ma di Opera d’Arte, intesa come idea onnipresente e superiore che non necessita un’incarnazione in materia e dentro un tempo e che sia del tutto impersonale. 

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Tiresia (2003) film diretto da Bertrand Bonello

2007 “Il Paese Dove Non Si Muore Mai”

intervento a Macchiagodena (IS).

 L’intero lavoro è stato teso alla ricerca di una pulsione performativa della comunità di Macchiagodena.

La fotografia e i concetti di assenza e immortalità, sono stati adottati come luogo/mezzo o cavallo di troia  per una possibile rappresentazione dell’interazione tra Arte e Vita quotidiana della piccola comunità. Comunità disabituata a ricercare, creare e vivere esperienze estetiche. Mi sono basato sull’idea che ogni comunità detiene un tesoro invisibile o nel migliore dei casi non consapevole, fatto di storie , racconti, riti e vita vissuta. L’azione è stata quella di far uscire dall’invisibile queste storie per una possibile condivisione.

Il lavoro IO PROJECT è stato strutturato come un laboratorio aperto dove gli artisti e studiosi invitati interagiscono con il luogo fisico, con le storie e la vita dei cittadini del paese.

La TCT television ha avuto, così come per il progetto 4VENTI LIVE, un ruolo fondamentale nel facilitare l’interazione tra arte e reale, il suo archivio documenta il “sublime quotidiano”: dissolvimento delle linee di separazione tra arte e vita.

L’avvenuto dissolvimento di tali linee di separazione è riscontrabile anche da un piccolo esempio, nel sito istituzionale del comune accanto al nome si è aggiunto il sottotitolo “Il paese dove non si muore mai”.

Tehching Hsieh

Il percorso artistico di Tehching Hsieh artista nato a Taiwan nel 1950 e residente a New York è costituito da un’unica serie di performance della durata di un anno che dal 1978 al 1999 hanno fuso l’attività artistica con la vita reale in un percorso di sofferenza e disciplina. Per meglio comprendere l’operato dell’artista descriveremo nel dettaglio questo straordinario lavoro: One Year Performance 1978-1979 (Cage Piece) In questa performance dal  29 settembre 1978 al 30 settembre 1979 Tehching Hsieh si è volontariamente rinchiuso all’interno di una gabbia di legnoammobiliata solo con un lavabo, un secchio, alcune luci ed un letto singolo. Durante l’anno non ha parlato, scritto, letto o guardato tv o ascoltato la radio. Il notaio Robert Projansky ha presenziato alla performance assicurandosi la presenza dell’artista all’interno della gabbia. Un amico ogni giorno si è recato a portare cibo all’artista pulendo i suoi escrementi e scattando una singola foto per documentare il progetto. La performance era aperta al pubblico almeno due volte al mese.One Year Performance 1980-1981 (Time Clock Piece) Tra l’11 aprile 1980 e l’11 aprile 1981 Hsieh ha punzonato un disco orarioall’interno di uno speciale orologio allo scoccare di ogni ora. Ad ogni punzonatura l’artista ha scattato una singola foto formando alla fine della performance un film di 6 minuti . Hsieh aveva precedentemente rasato i suoi capelli per documentare lo scorre del tempo.

One Year Performance 1981-1982 (Outdoor Piece) Dal  26 settembre 1981 fino al 26 settembre 1982, Tehching Hsieh ha trascorso la sua vita all’esterno dormendo in un sacco a pelo a New York. Nel corso di tutto questo tempo non è mai entrato in un edificio o in un mezzo di locomozione.

On Kawara 1932-2014

Nel 1966 On Kawara, un artista concettuale giapponese trasferitosi a New York l’anno precedente, iniziò la serie “Date Paintings”. Ognuna delle opere, che nel loro complesso costituiscono l’insieme “Today Series”, consiste in un piccolo quadro di formato rettangolare a fondo monocromo, nero o rosso, sul quale sono dipinte in bianco le lettere e le cifre che compongono la data del giorno. La stesura del colore di fondo e del bianco dell’iscrizione risponde a un protocollo minuziosamente predisposto e rigorosamente osservato, e, nel caso che il dipinto non sia completato entro la mezzanotte del giorno in cui è stato iniziato, esso viene distrutto. Ogni quadro ha come titolo la data che vi è inscritta e come sottotitolo una frase tratta da un quotidiano del giorno, ed è riposto in una scatola di cartone etichettata con la data corrispondente e foderata al suo interno con un ritaglio di un quotidiano letto dall’artista durante quella giornata.

È ovviamente il tempo l’oggetto dello studio di Kawara, quell’esperienza del tempo vissuta sia dal punto di vista individuale, dei giorni, degli anni che scorrono, inesorabili, sulla pelle dell’artista e quindi sulla pelle della tela, sia dal punto di vista storico, del mondo che vede la sua storia raccontata attraverso le prime pagine di quotidiani casuali. Perchè è di casualità che parla l’artista giapponese, casualità che domina questa serie a partire dai sottotitoli, dai quei frammenti di giornali che si ritrova ogni mattina davanti la porta. Eppure è proprio questo che vuole tramandare ai posteri, questa visione del tempo, in cui di nulla si può esser certi, nulla tranne una cosa: domani è un altro giorno e non possiamo sapere che cosa ha in serbo per noi. E allora non si può proseguire domani qualcosa che si è iniziata oggi, e se non la si completa in tempo non c’è altro da fare che ditruggerla.

“One Million Years” è un’altra sua opera fondamentale sullo scorrere del tempo: consiste in dei libri divisi in due parti, una denominata Past e una Future, contenenti soltanto, in ordine cronologico, l’indicazione di anni, precisamente di un milione nel passato e di un milione nel futuro. Partendo da ciò ci sono tre possibili modi di fruire l’opera:

  la performance di volontari che leggono una serie di date;

  l’ascolto di audio cd con la registrazione della suddetta performance;

  la lettura diretta dei libri.

La prima presentazione è avvenuta nel 1993 al Dia center for the Arts di New York. I visitatori potevano ascoltare One Million Years (Future) mentre veniva letta da delle persone, mentre si poteva osservare il libro di One Million Years (Past) e sulle pareti una raccolta dei Date Paintings. Ma l’esibizione più importante è certamente avvenuta nel 2002 alla manifetazione Documenta 11 a Kassel, dove una coppia di volontari, sempre un maschio e una femmina, seduta dentro una cabina, poteva essere osservata mentre leggeva date tratte sia dalla parte Future che dalla parte Past, durante un arco di tempo di 100 giorni.

Ancor più che nella Today Series, da questo progetto di evince l’ossessione per il tempo di On Kawara. Un’opera monumentale, certamente non dal punto di vista realizzativo, ma dal punto di vista concettuale: un’idea pesante destinata ad appesentire la mente del fruitore, un fardello da portarsi dietro e con cui bisogna fare i conti. Perchè rendersi conto, ascoltando o leggendo gli anni che scorrono, di quanto poco tempo siamo destinati a passare su questo mondo, di quanto siamo, in fin dei conti, insignificanti rispetto alle ere geologiche che fa declamare Kawara, è certamente uno spunto per riflessioni importanti. Ma per l’artista giapponese pare essere proprio questo il modo giusto per esorcizzare l’ancestrale paura del tempo che passa: scrivere così tante date da trasformarle in nient’altro che numeri, così tante da far dimenticare il significato convenzionale loro attribuito, così tante da farle tornare ad essere soltanto segni grafici.

Come si può vedere da questi accenni, On Kawara ha fatto del tempo terreno fertile per la sua ricerca, fino a farlo diventare quasi un’ossessione artistica. Tutte le sue opere più importanti hanno a che fare con la catologazione, cioè con un accumulo temporale di informazioni: da quelle che abbiamo velocemente analizzato alle cartoline di “I Got Up At”, dai telegrammi di “I’m Still Alive” alle cartine di “I Met”. E se è pur vero che è fin dall’ultimo quarto del XIX secolo che l’opera d’arte viene vista anche come una fatto puramente temporale in quanto frutto di un lavoro che richiede del tempo, il giapponese Kawara compie quello che è forse il passo successivo: visualizzare il fondamento temporale dell’operazione artistica, e visualizzarlo senza metafore o altre figure retoriche, semplicemente per quello che è o, per meglio dire, per ciò che a noi sembra.

Una piccola raccolta di opere di On Kawara, tra cui esempi della serie “I’m Still Alive” (raccolta di telegrammi in cui avvisava gli amici di essere ancora vivo) e della serie “I Got Up At” (raccolta di cartoline inviate dai luoghi in cui lo portavano le sue mostre con l’indicazione dell’ora in cui si era svegliato) è visitabile sul sito del MoMA di New York.

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Organ²/ASLSP (As SLow aS Possible)

è un’opera musicale scritta nel 1987 da John Cage. Il brano musicale, per organo, è basato su un suo lavoro precedente per pianoforte, che durava tipicamente dai 20 ai 70 minuti.
In effetti, Cage aveva specificato che il brano andava eseguito “il più lentamente possibile”, ma non aveva specificato nello spartito esattamente quanto lentamente avrebbe dovuto essere suonato.
Nel 1997 un convegno di musicisti dibatté a lungo sulle implicazioni del brano e la sua esecuzione. Un organo, infatti, non ha alcun limite di tenuta di una nota e, se mantenuto correttamente, potrebbe avere una vita infinita.
Il 5 Settembre 2001 è cominciata la performance all’interno della Chiesa di S. Burchardi, ad Halberstadt, Germania: il brano si apre con una pausa, che è durata fino al 5 Febbraio 2003. Il primo accordo, a partire da quel giorno, è durato fino al 5 Luglio 2005.
La performance di Organ²/ASLSP terminerà il 5 Settembre del 2640, per una durata complessiva di 639 anni.
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Il Merzbau

(letteralmente “costruzione Merz”) è l’opera più significativa e rappresentativa di Kurt Schwitters, tanto che l’artista stesso la definì l’opera della sua vita. Quest’opera è presente nella vita dell’artista in modo quasi ininterrotto dal 1923 fino alla fine dei suoi giorni, nel 1948. Schwitters, infatti, iniziò dapprima la costruzione del Merzbau ad Hannover, nello studio della sua abitazione in Waldhausenstrasse 5, nel 1923 e vi lavorò incessantemente fino al 1937, anno della fuga in Norvegia. Qui, nei pressi di Oslo, nel 1937 inizia a lavorare alla seconda costruzione del Merzbau (Haus am Bakken). Successivamente nel 1947, in Inghilterra, ad Ambleside, si dedicherà ad una terza ricostruzione, questa volta all’interno di un fienile, da cui il nome Merz Barn, fienile Merz. Quest’ultima è l’unica struttura delle tre rimasta ancora oggi, benché incompleta, dal momento che sia quella di Hannover sia quella norvegese sono andate distrutte, la prima durante un bombardamento aereo nel 1943, la seconda nel 1951 a causa di un incendio.

Il Merzbau di Hannover

Il Merzbau si presentava come uno spazio interno astratto, in cui pareti, soffitto e l’intero ambiente erano invasi da svariati oggetti e costruzioni. Schwitters iniziò la sua opera occupando lo studio della sua abitazione ad Hannover con una colonna centrale, la colonna della miseria erotica, che Schwitters aveva iniziato già nel 1920. Successivamente le colonne divennero tre e l’ambiente cominciò a proliferare in modo progressivo ma non ordinato. Il Merzbau presentava, infatti, una struttura casuale, senza un preciso ordine architettonico, e l’autore vi costruì persino delle “grotte”, dedicate sia ad artisti amici (vi era la grotta Theo van Doesburg, quella per Hans Arp, per Hannah Höch), sia a concetti di natura più o meno astratta (come la “grande grotta dell’amore”, piuttosto che la “cava dell’omicidio sessuale”). La composizione fisica della costruzione è la più svariata: vi si ritrovano oggetti di ogni genere, a testimonianza delle varie esperienze di vita dell’autore. Agli amici, ad esempio, Schwitters chiedeva di lasciare un elemento in ricordo della loro visita. Si vede così come il Merzbau viene a costituire una sorta di autobiografia dell’artista, dove egli racchiudeva, attraverso le varie costruzioni e i vari elementi, le sue esperienze e sensazioni. Divenne una rappresentazione labirintica della sua mente e questo è ciò che ne determina in modo più evidente la sua unicità e la conseguente difficoltà di una ricostruzione: sia da parte dei curatori del museo di Hannover, sia da parte dell’artista stesso.
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Guido Ceronetti (Torino, 24 Agosto 1927) è un poeta, filosofo, scrittore, giornalista e drammaturgo.

« Tutto è dispersione, lacerazione, separazione, rotolare di ruota senza carro, e questo ha nome esilio,

o anche mondo »

Uomo di erudizione e di sensibilità umanistica, ha cominciato nel 1945 a collaborare con vari giornali; la sua presenza sul quotidiano La Stampa ebbe inizio nel 1972 e continua tuttora. Nel 1970 ha dato vita al Teatro dei Sensibili allestendo, insieme alla moglie Erica Tedeschi, spettacoli itineranti con le sue “marionette ideofore”.

Amico di Emil Cioran, quest’ultimo gli ha dedicato un capitolo di Esercizi di ammirazione pubblicato in Italia nel 1988.

Nel 1981, all’uscita del primo libro tradotto in italiano di Emil Cioran (Squartamento), presso Adelphi, Ceronetti scrisse la prefazione definendo lo scrittore rumeno-francese “squartatore misericordioso”.

Nel 1994 è stato aperto, nell’Archivio Prezzolini della Biblioteca cantonale di Lugano, il fondo Guido Ceronetti, da lui scherzosamente definito “il fondo senza fondo”. Esso raccoglie infatti un materiale ricchissimo e vario: opere edite e inedite, manoscritti, quaderni di poesie e traduzioni, lettere, appunti su svariate discipline, soggetti cinematografici e radiofonici. Vi si trovano, inoltre, numerosi disegni di artisti (anche per il Teatro dei Sensibili), opere grafiche dello stesso Ceronetti, collage e cartoline. Con queste ultime fu allestita, nel 2000, la mostra intitolata Dalla buca del tempo: la cartolina racconta.

Di rilievo la sua attività di traduttore, sia dal latino (Marziale, Catullo, Giovenale, ecc.), sia dall’antico ebraico (tra cui Salmi, Qohèlet, Libro di Giobbe). Dal 2009 è beneficiario della legge Bacchelli in quanto cittadino che ha «illustrato la Patria».

È noto per essere un acceso sostenitore del vegetarismo. Alcuni suoi articoli sull’immigrazione e il Meridione, pubblicati sul quotidiano La Stampa, sono stati tacciati di razzismo da diversi intellettuali italiani. Notevoli discussioni suscitò, altresì, un suo intervento, sempre su La Stampa, a difesa del capitano delle SS Erich Priebke

Nel 2012 è stato insignito del premio “Inquieto dell’anno” con cerimonia avvenuta il 2 giugno 2013 nell’auditorium di santa Caterina a Finale Ligure.

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L’infimo Inizio

Ho letto con molto interesse il vostro scambio di riflessioni sullo stato delle cose e le domande che esso pone.

http://whlr.blogspot.com/2011/11/yes-medio-xxx-palazzo-vecchio-firenze_25.html

In merito alla “crisi della rappresentazione” penso anch’io che la ragione stia nella sovrapproduzione estetica, ma questa, ne è solo la sua messa in scena finale.

Penso che la “rappresentazione” sia giunta al suo naturale epilogo grazie al “Compimento Compiuto” della comunicazione. Non si tratta, quindi, di crisi (che può istigare qualcuno a un’azione affinché si rianimi) ma di “fine naturale”. Allo stesso modo non bisogna porsi la domanda “cosa fare?”, perché essa potrebbe tradire un sentimento di non accettazione di tale fine, che invece va salutata con un ….Finalmente!!

Un… finalmente!!. che denuncia, sia un ritardo temporale nel quale essa avviene, che le colpe del cosiddetto ArtWorld, responsabile di aver ignorato, marginalizzato e fatto sparire quelle ricerche che già venti anni fa miravano al suo superamento.

Ora, a mio avviso, stiamo vivendo uno dei periodi piu belli e interessanti, quello del cambiamento… siamo nell’infimo inizio. L’infimo è l’impercettibile inizio del movimento del principio opposto e contrario all’egemonia che ha raggiunto la sua massima espansione. Pochi vedono questo impercettibile movimento, questo segno visibile di ciò che è fausto.

Meno che meno lo vede l’ArtWorld, troppo impegnato a trovare l’ultimo affare prima dell’ora di chiusura.  Invece l’Uomo di valore non appena vede l’infimo passa all’azione, senza attendere la fine della giornata.

L’artista è quell’uomo di valore?…io penso di sì, a patto che riprenda quel cammino dove l’arte è pensata come percorso evolutivo del pensiero umano e il cui obiettivo sia quello di aprire un nuovo livello superiore.

Le affermazioni: “…la fine della rappresentazione sposta il centro dell’opera altrove, …rendere la vita artistica e non l’arte vitale sia la strada nella quale operare, …forse oggi non si dà salto evolutivo se non nell’abbandono individuale della pratica artistica…, …si tratta di mettere in discussione ruoli e format. Di conseguenza l’idea di opera. Di conseguenza l’idea di Museo…”, sono punti programmatici fondamentali che però non possono essere messi in cantiere senza calarsi, a mio avviso, in una “condizione”, l’ammletizzazione dell’eroe, cioè quella condizione dell’eroe la cui tragedia non dipende da un’azione compiuta ma da un’azione da compiere. In questa condizione all’uomo di valore è affidato, come primo atto, il compito di “differire” l’opera, allontanarla il più possibile da sé. Differire l’opera significa (la seconda definizione di senso del concetto di Differance di Derrida) mettere una distanza tra sé e la cosa con la conseguente uscita dal primato della presenza. Questo primo atto rende la vita, una vita artistica e la mancata produzione di oggetti artistici (abbandono individuale della pratica artistica) che ne deriva, causa una sorta di sciopero involontario di produzione che impone, di fatto, un ripensamento dei ruoli in tutta la filiera dell’arte.

All’artworld non resta che regolare, se vorrà farlo, il proprio orologio sul tempo e quindi scegliere se ritornare a essere anticipatore occupandosi del tempo non occupato artisticamente, oppure continuare a essere in perenne ritardo, così come lo è stato negli ultimi quaranta anni. Credo che il superamento sia in atto e che stia avvenendo non attraverso la negazione di ciò che si vuole superare, ma attraverso la sua riduzione di valore a elemento pretestuoso o indifferente. L’impercettibile movimento del cambiamento è in atto… la mia ricerca, insieme ad alcune altre, ne è la testimonianza.

In questo preciso momento, a ben guardare l’Arte non è nell’arte…. questo mi sembra un bel vantaggio!

A presto

MI

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“ La Guerra Dei Due Mondi ”

 

 

 

L’opera è una citazione -elogio- alla Narrativ Art, con un epilogo “Fantastico”. Il lavoro non è altro che la messa in scena di un falso matrimonio, il mio. La notizia sapientemente guidata ha fatto sì che il falso matrimonio si intrecciasse con la realtà attraverso i festeggiamenti ed i regali realmente ricevuti da parenti, conoscenti ed amici, convinti invece dell’autenticità dell’evento… Anche la foto è un falso, elaborata al computer.

The work is a quotation – praise to Narrative Art with a “fantastic” epilogue. It is the role-play of a false marriage, mine. The news of the marriage turned the fiction into reality through the parties and the gifts really received from friends and relatives who thought the marriage was authentic. The photo is also a false, it has been elaborated on computer.

 

 

“Amplikon” Via Farini Gallery Milano (I) 1997

Curated By: Alessandra Galletta.

“Operat Narrativ art “ Palazzo Rasponi Ravenna (I)1996

Curated By:Roberto Daolio, Silvia Grandi, Alessandra Borgogelli, Emilio Fantin, Piero Cattani.

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AMEN!! Celebrazione Messe suffragio.

Se colui che muore esce dal tempo, il suo perdurare potrà essere inteso solo in senso noumenico, ossia come una grandezza incommensurabile rispetto al tempo.  Il pensiero, del defunto nelle messe suffragio, produce una esperienza come cosa in sè, ovvero, in quanto puramente pensabile si dà nel tempo. “il pensare racchiude un riflettere e questo a sua volta può darsi solo nel tempo”(Kant). L’atto di questo pensare, nel momento in cui si indirizza all’oggetto del pensiero, si pone come la cosa stessa e come tutte le cose del mondo si manifesta in modo sdoppiato, ossia come fenomeni.

messa suffragio

La visionarietà

è confusione e leggerezza. Il visionario non è chi fantastica e produce visioni ma chi subisce e si perde in ogni inaspettato fantasma; il visionario non ambisce ad altro che alla liberazione dal soggetto, per potersi arrendere al ritrovamento di una letterale subiettività – dal latino subiectum, che poi è “soggetto” nel senso originario di sottomesso, prostrato.
Il soggetto diventa così uno strano protagonista passivo: libero dal fare piuttosto che di fare, si ritroverà esposto ai suoi stessi pensieri, che non gli apparterrano ma lo possiederanno appunto come visioni. Si realizza così l’esperienza -autentica e sul serio soggettiva – di una sottomissione al vuoto della cultura( o al nonsense dell’esistenza), ma una sottomissione costante che non cederà mai il passo a una resa definitiva e tantomeno terminerà con la conquista di una pace impossibile. Se così avvenisse, ci si prenderebbe troppo sul serio. Si diventerebbe esempi e non casi, si ritornerebbe a essere pesanti identità e non sante nullità.
CAsaDAVERmI dvd
LE COLONNE SONORE INDIVIDUALI?
Musica come costrutto sociale: come l’arte, la musica è definita innanzitutto nel suo contesto sociale. Da questo punto di vista la musica è ciò che ognuno chiama musica, che sia fatta di silenzio, di suoni, o di performance.
Musica come una categoria della percezione: la musica non è semplicemente suono, o la percezione di esso, ma una rappresentazione interna, che percezione, azione e memoria contribuiscono a creare.
I materiali su cui lavoro non sono propriamente musicali, o almeno, non lo sono in senso stretto. La mia riflessione sulla musica (composizione) si focalizza sulla possibilità, per qualsiasi persona, di avere la propria colonna sonora. Colonna sonora che lo accompagna lungo l’arco della giornata.
Queste si legano alla persona attraverso uno spago, corda, filo ecc.. e la persona se la trascina nella sua quotidianità.
Questo primo lavoro “CAsaDAVERmI” è una raccolta di 60 colonne sonore che hanno come soggetto/oggetto “la sedia”.
Il cd in realtà è un dvd dove, suono-persona-oggetto contribuiscono in egual misura alla costruzione del lavoro.

La mia continua pratica etica, il mio essere costantemente “altro” rispetto al contesto dell’arte ed al mondo degli artisti e musicisti miei contemporanei, porta il mio operare al di là dell’atto che istituisce la negazione, perché secondo me la negazione deve essere a sua volta negata, pena la ricaduta in una certa epidemicità del fare musica. Pensare significa immaginare ciò che accade nei diversi mondi possibili. Quindi semplicemente concepisco un’intenzione come una a-funzione, che determina una estensione.
Di qui la mia differenza da John Cage. Non voglio conoscere attraverso “il silenzio”, “ma propongo di riapprendere, in questo silenzio negato e permanentemente lacerato dal frastuono, a vivere nell’infinita precarietà di questo pieno ed in questa totalità, dove tutte le musiche sono uguali”.

© MM

CAsaDAVERmI cover dvd

Henry David Thoreau, (Concord, 12 luglio 1817 – Concord, 6 maggio 1862), è stato un filosofo, scrittore e poeta statunitense.

Nato in una famiglia modesta, si laureò all’Università di Harvard nel 1837. Intrattenne una profonda amicizia con Ralph Waldo Emerson e con altri pensatori trascendentalisti. Vicino a tale concezione, il suo riformismo partiva dall’individuo, prima che dalla collettività, e difendeva uno stile di vita in profondo contatto con la natura.

La morte del fratello John, avvenuta nel 1842, fu per lui un grande dolore. La scrittura del libro-diario Una settimana sui fiumi Concord e Merrimack (1839–1849) lo aiutò nel suo tentativo di superare la perdita del fratello e di tenerne viva la memoria. Forte il credo nel principio della reincarnazione, il quale percorre tutta l’opera attraverso puntuali digressioni sulle filosofie orientali e l’interessante uso simbolico del fiume come elemento di rinascita e continuità, presente sia nelle filosofie Orientali che Occidentali. Nel 1845, per sperimentare una vita semplice e come forma di protesta contro il sistema (volontà di svincolarsi dagli obblighi e dalle costrizioni della società, di non lasciarsi contaminare dalle scorie che il lavoro inevitabilmente produce), si stabilì in una piccola capanna da lui stesso costruita presso il lago di Walden (Walden Pond), nei pressi di Concord (Massachusetts). Qui poté dedicarsi a tempo pieno alla scrittura e all’osservazione della natura. Dopo due anni, nel 1847, lasciò il lago di Walden per vivere col suo amico e mentore Ralph Waldo Emerson e la sua famiglia a Concord.

Nel 1846 Thoreau rifiutò di pagare la tassa (poll-tax) che il governo imponeva per finanziare la guerra schiavista al Messico, da lui giudicata moralmente ingiusta e contraria ai principi di libertà, dignità e uguaglianza degli Stati Uniti. Per questo fu incarcerato per una notte e liberato il giorno successivo quando, tra le sue vibrate proteste, sua zia pagò la tassa per lui.

Nel 1849 scrisse il saggio Disobbedienza civile. Nel 1854 pubblicò Walden, ovvero La vita nei boschi, nel quale descriveva la sua esperienza di vita sul lago Walden.

Morì di tubercolosi nel 1862 a Concord, la sua città natale.

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THOMAS HIRSCHHON “Made In Tunnel Of Politics” 2010

 

LA SPEDIZIONE CAGOJA

 

In linea con l’idea che un un granello di sabbia può essere una patria la spedizione Cagoja°2 partita dal porto di Termoli il giorno 29 giugno 2007 alle ore 8:30, a bordo del vascello Intrepido alla volta dell’isola di Cretaccio nell’arcipelago delle isole tremiti, ha fondato una città, Macondo la città invisibile.
Durante la permanenza sull’isola, i membri della spedizione, hanno istituito il C.A.M.(consiglio di amministrazione di Macondo).

Il CAM ha stabilito che:

1- MACONDO è stata fondata il giorno 30 nel mese di giugno 2007 alle ore 12:00 dai membri della spedizione Cagoja #2.
2- Macondo è una città invisibile.
3- Macondo è un luogo relazionale (Gottfried Leibniz).
4- Macondo è una dimensione mentale e creativa, uno stimolo all’innovazione, alla ricerca e alla scoperta, “luogo” in cui diviene possibile esplicitare le varie forme della cultura.
5- Macondo coltiva l’individualità espressiva dei suoi cittadini.
6- Macondo è “l’evento”, che, secondo George Brecht, mette il vaso
di fiori sul pianoforte.
7- Macondo è un atteggiamento “fantastico” nei confronti dell’arte e della vita.
8- I cittadini sono, per statuto, non residenti e sono accumunati da uno spirito di ricerca possibile nelle arti e nel pensiero umano
9-. la sua popolazione, vive in una pestilenziale insonnia nel tentativo – non velleitario, ma forse paradossale – di risvegliare “il fantastico nell’essere umano”.
10- Ogni cittadino ha il diritto di mettere in pratica la “cittadinanza” di macondo, attraverso la propria forma e mezzo espressvo in qualsiasi posto del mondo, contribuendo così alla sua crescita e alla sua storia.

Obiettivi

1- mettere in pratica l’idea di luogo fantastico all’interno della standardizzazione dello spazio reale e virtuale.
La conquista di uno spazio fisico reale per fondarci una citta invisibile è il mettere in pratica un’idea, né reale nè virtuale ma fantastica.
Il fantastico ponendosi al centro tra reale e virtuale, agisce con azioni ironicamente provocatorie nella realtà e contemporaneamente usa il virtuale per trarne vantaggio.
Lo scopo non è quello di mettere sul mercato dell’arte o della politica l’ennesima opera o stato, di cui nessuno ha bisogno, ma è quello di far riflettere sulla possibilità di usare il sistema preesistente reale/virtuale per crearne uno autonomo dove il fantastico sia libero di esprimersi.
Macondo non si propone come luogo esterno, alternativo e quindi in conflitto con gli altri, ma al contrario intende arricchire gli altri luoghi, traendone contemporaneamente vantaggio. A Macondo il fantastico ha trovato casa.

2- in accordo con il Comune delle Isole Tremiti, cambiare nome all’isola, da Cretaccio a isola di Macondo.

 

 

TSUKIMI AYANO

 

 

KOMARTFASHION
Ma il mondo ha veramente bisogno di un altro modello di abito?… l’abito è complice della persona che lo indossa?

Queste domande sono il punto di partenza della riflessione sul costume.
L’idea che ne è nata e quella di un abito TESTIMONE di stralci di vissuto. L’abito usato, comunemente diventa straccio, per Mariano diventa un abito con esperienza, marchiato e rimesso in circolo per ricevere altra storia, altra esperienza L’abito Komart non è altro che il fuggire dalla fascinazione dell’oggetto è lo sfuggire alla caduta nel tempo.
Ogni abito è unico… sia per aspetto, sia per storia. Esso è appartenuto ad un’altra persona. Vestire Komart significa liberare la fantasia, abbinando non colori, stoffe ecc… ma il vissuto di diverse persone.

Gli abiti KOMARTFASHION sono indumenti usati (griffati e non) dei quali possediamo due fondamentali informazioni:
1-l’identità del proprietario (nome e cognome)
2-la descrizione di un occasione in cui esso e stato indossato.
l’abito con queste informazioni è sottoposto all’intervento di giovani stilisti ed artisti d’arte contemporanea.

Nell’etichetta Komartfashion sono riportate:

1- il numero di serie
2- l’identità del proprietario (no telefono , no indirizzo).
3- l’occasione in cui è stato indossato(romantica, felice, divertente o tragica) e il luogo (città o nazione).
4- l’autore dell’intervento (nome artista)

L’abito è rimesso sul mercato al costo di 30 euro.

Anche tu puoi partecipare al processo inviandoci abiti dismessi il tuo nome e la tua “vita” verrà “indossata” da altri.
Per inviarci gli abiti compila la scheda servendoti del modulo qui di seguito (una scheda per ogni abito).
Se invece desideri riceverli indietro modificati, devi fornire prove di avvenuto pagamento. Il costo per ogni capo e di 25 euro comprese le spese di spedizione.
L’abito che riceverai è unico frutto dell’intervento artistico, una vera e propria opera d’arte. Un’opera può essere indossata, qualora i gusti estetici coincidono, oppure, essere considerata come testimonianza del percorso artistico dell’autore e attestazione dell’identità e della vita di un’altra persona, dandogli l’attenzione ed il rispetto che un’opera d’arte esige potrai quindi incorniciarla conservandola sottovetro…. il suo valore aumenterà con il tempo.

ciao4 giugno 2004 tecnica mista su stoffa
Etichetta abiti KF

L’ARTE ESPANSA 

di Mario Perniola

In questo libro, il cui titolo prende spunto dal mitico testo di Gene Youngblood, Expanded Cinema, l’autore sostiene che è avvenuta una profonda destabilizzazione del sistema artistico, da lui definita come la svolta «fringe» dell’arte contemporanea. Molte barriere tradizionali sono crollate; si è aperto un orizzonte enormemente piú vasto all’interno del quale è difficile orientarsi. Esso comporta molti pericoli, ma offre al contempo nuove opportunità per chi voglia avventurarsi su questo terreno, a condizione di saper trasformare le molte informazioni disordinate e frammentarie di cui disponiamo in un discorso coerente che costituisca una nuova conoscenza estetica in grado di indirizzare un’attività artistica avvincente. La singola produzione artistica non basta piú a se stessa, ma richiede per la sua comprensione un corredo di dati che sollecitino la massima attenzione e le conferiscano legittimità e autorevolezza: Perniola introduce perciò il neologismo di «artistizzazione» e si sofferma sulle operazioni che la rendono possibile.

arte-espansa sito
visionario_bg

Agosto – Settembre 2004, FLASH ART 63

MICHELE MARIANO – UN FATALE WORK IN PROGRESS

– la prima opera d’arte postuma –

“..la luna gira il mondo è voi dormite…..” Matteo Salvatore

Fabiola Naldi: COSA E’ COLLAGE E IN CHE COSA CONSISTE?
L’idea … ricostruire un intero scheletro umano con le ossa di diverse persone. Collage è un’opera d’arte in svolgimento, un vero reliquiario artistico, monumento unico alla cultura internazionale.
F.N.: IN CHE MODO SEI GIUNTO A UN PROGETTO DI TALE PORTATA CONSIDERANDO CHE L’OPERA DIVERRA’ TALE SOLO AL MOMENTO DELLA TUA MORTE E QUELLA DEI PARTECIPANTI PRESCELTI?
E’ il mio esoscheletro …termine che identifica il rivestimento più o meno rigido d’invertebrati….riferito all’essere umano è il rivestimento che ha in sé il come una persona si relaziona con il mondo. Qualche tempo fa scrissi un libro, per le edizioni dell’ortica, nel quale m’interrogavo sul come la persona sì “liberasse”, attraverso le nuove tecnologie, in un nuovo rapporto con il mondo, tanto che la percezione del nuovo corpo era un CyberBody. Uno degli elementi portanti del progetto è la mancanza “dell’oggetto”..o meglio l’oggetto ci sarà dopo la morte sia dei partecipanti sia di molti contemporanei.. Ogni donatore stipula un contratto di donazione di un osso che sarà ritirato tra il sesto ed il decimo anno dopo la morte è, la prima opera d’arte postuma… …l’opera ci sarà quando tutti noi saremo morti…è un opera che fugge dalla fascinazione dell’oggetto e sfugge alla caduta nel tempo!
F.N.: COME SCEGLI I “TUOI COMPAGNI DI VIAGGIO” E COSA TI RIMANE (PER ORA) DI LORO?
Il mio esoscheletro è costituito da tante persone, molte sono gia morte, l’elenco di Collage è costituito da persone in vita che io posso raggiungere … persone che nel bene e nel male sono i responsabili di come io sono, perché ho letto i loro libri, ho ascoltato la loro musica, ho visto i loro film ecc…, un esempio? se vesto di nero è per colpa o per merito loro….
F.N.: CREDI CHE COLLAGE STIA MODIFICANDO E CONDIZIANDO LA TUA STESSA VITA?
Da circa due anni vivo in camper…mezzo ideale ed economico…pratica largamente usata negli anni 60/70….Con il camper sono sempre in anticipo sugli appuntamenti. Ho incontrato moltissime persone che partecipano al progetto in modo propositivo, con alcuni di loro è iniziata una collaborazione, questo è successo ad esempio con la Banda Jonica, Giovanni Lindo Ferretti, Caparezza ecc…inoltre centinaia di persone mi aiutano nel viaggio acquistando, ciascuno, un biglietto di cinque euro, e per ogni biglietto venduto percorro 20 Km, più biglietti vendo più mi avvicino allo scopo, e tutti sono parte integrante del progetto.

“ COSTUME NAZIONALE Project “

 

Costume Nazionale prende spunto dalla volontà di rendere vivi gli abiti che ho indossato, sempre lo stesso stile, per 16 anni, arrivati al punto di assumere i connotati di una “uniforme”. L’operazione è divisa in diverse fasi: la prima consite nella creazione di 7 modelli di abiti ognuno dei quali si differenzia dagli altri per piccole variazioni sul tema. Nella fase successiva uno dei modelli ha fatto la sua comparsa all’interno della sfilata di COsTUME NATIONAL di Ennio Capasa avvenuta nel gennaio 1995 a Milano. Di conseguenza il modello è entrato nella linea di produzione di COsTUME NATIONAL e nel mercato della moda.

The Costume Nazionale event derives from the real wish to make alive the clothes I have worn –always the same – for 16 years and which now can be classified as a “uniform”. The operation is divided in several phases: the first consisted in creating 7 suits, each one differs from the others by inperceptible variation of the theme. The following phase was the participation of one of the suits at a real fashion show, the Costume Nationale man’s winter collection held in Milan in January 1995 . As a consequence the suit was produced by Costume Nationale and entered in the fashion market.

Fashion show to Parigi and Milano

Curated By: Ennio Capasa

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Jan Fabre

Henri Michaux (Namur, 24 maggio 1899 – Parigi, 19 ottobre 1984) è stato uno scrittore, poeta e pittore belga naturalizzato francese nel 1955. La sua opera è spesso posta in relazione con la corrente surrealista sebbene, tuttavia, egli non abbia mai fatto parte del movimento.

Michaux trascorre la sua infanzia in un’agiata famiglia di fabbricanti di cappelli, a Bruxelles, in via Defacqz n° 69. Dopo un periodo trascorso in un pensionato della regione di Anversa, prosegue i suoi studi presso il Collège Saint-Michel dove, tra i suoi compagni, figura il futuro poeta Geo Norge.

Adolescente angosciato, le sue prime esperienze letterarie sono segnate dalla lettura di Tolstoj e Dostoevskij. Anche se legge molto, nei suoi iniziali studi presso i Gesuiti non si orienta verso ambiti letterari, ma verso la medicina, che abbandonerà abbastanza presto per imbarcarsi come marinaio nella Marina militare. Naviga nel 1920 e 1921 ma è poi costretto a sbarcare quando la sua nave viene disarmata. All’incirca nella stessa epoca, a spingerlo a scrivere è la lettura di Lautréamont. Il risultato sarà il Cas de Folie Circulaire del 1922, un primo testo che già rende un’idea di ciò che sarà il suo stile. In seguito gli scritti si succedono (Les rêve et la jambe nel 1923, Qui je fus nel 1927.) e gli stili si moltiplicano. Nel 1928 si stabilisce a Parigi, dirigendovi anche la rivista “Hermès”. Nel 1929 ricomincia a viaggiare. Dal 1955 si dedicò alla sperimentazione degli allucinogeni, in particolare della mescalina.

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CHRISTIAN RAINER “La Sepoltura Del Cervo” 2010

“ Istigazione”

L’istigazione qui presa in esame è l’istigazione al suicidio.

Per la città: negli appositi spazi pubblicitari sono stati affissi numerosi manifesti in cui risalta il volto dell’artista intento ad esibirsi in smorfie verso chi osserva.

In galleria: una gru situata all’esterno dell’edificio consente al pubblico di essere trasportato all’altezza del terzo piano. Da qui entrando dalla finestra è possibile visitare lo spazio della galleria, completamente vuota. Attraversando la sala si giunge accanto ad una seggiola in prossimità di una finestra aperta. La seggiola consente di salire sul davanzale della finestra…….e…………

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Here we find the incitement to commit suicide. In the city: many posters showing the artist’s face who makes faces at people have been put up in the advertising spaces. In the gallery: from outside, a travelling-crane takes people to the third floor. They go in through the window and visit the gallery that is completely empty. Crossing the hall, people arrive at a chair near the opened window. The chair makes people reach the windowsill…….and………..

 

 

“Istigazione” 4,5×4,5 art Gallery Parma (I) 1997

Curated By: Guido Molinari

© MM

Madonna Con Bambino

Jeremy Bentham (Londra, 15 febbraio 1748 – Londra, 6 giugno 1832) è stato un filosofo e giurista inglese.

Fu un politico radicale e un teorico influente nella filosofia del diritto anglo-americana. È conosciuto come uno dei primi proponenti dell’utilitarismo e dei diritti degli animali, e influenzò lo sviluppo del liberalismo.

Bentham fu uno dei più importanti utilitaristi, in parte tramite le sue opere, ma in particolare tramite i suoi studenti sparsi per il mondo. Tra questi figurano il suo segretario e collaboratore James Mill e suo figlio John Stuart Mill, oltre a vari politici (e Robert Owen, che divenne poi uno dei fondatori del socialismo).

Come richiesto nel suo testamento, il suo corpo fu imbalsamato, rivestito e collocato seduto in una teca vitrea, chiamata la sua “Auto-Icona”, all’University College di Londra. L’Auto-Icona è posizionata alla fine del chiostro sud della parte principale del College e può essere visitata. Tale scelta ha dato adito alla diceria (del tutto infondata) secondo cui l’Auto-Icona verrebbe occasionalmente portata alle riunioni del College Council (in cui Bentham risulterebbe “presente ma non votante”). Durante l’imbalsamazione, la testa di Bentham fu gravemente danneggiata, risultando annerita e quasi irriconoscibile; si decise pertanto di asportarla e sostituirla con una riproduzione in cera. La testa fu poi posizionata sul pavimento della “vetrinetta”, in mezzo alle gambe del cadavere. Nel 1975 alcuni studenti la sottrassero e, dopo aver preteso un “riscatto” di 10 sterline, la fecero ritrovare in uno stipetto nel deposito bagagli della stazione ferroviaria di Aberdeen. A seguito di ciò, la testa fu trasferita in un frigorifero situato nei sotterranei del college.

 

Jeremy_Bentham-body

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Gunther Von Hagens

Leo Bassi

Giocoliere, attore e comico, è nato negli Stati Uniti nel 1952 da una famiglia di circensi tra i quali alcuni avi di origine italiana da cui il cognome. Ha vissuto in Francia, Medio Oriente, Giappone, Italia ed un po’ ovunque girando il mondo con i suoi spettacoli; attualmente risiede in Spagna con frequenti trasferte in America Latina.

Specializzato nei numeri di antipodista (acrobazie eseguite con oggetti tenuti in equilibrio e fatti volteggiare con i piedi) ha sviluppato dagli anni ottanta una serie di spettacoli che dal primo “Il circo più piccolo del mondo” di cui era unico protagonista, lo vedono sempre più interagire con il pubblico in un parossismo demenziale a tinte drammaturgiche molto forti. La sua carica dirompente e l’apparente sprezzo del pericolo è insito nei suoi numeri come quello con la motosega con la quale affetta al volo i cocomeri o il concerto con il “detonofono” marchingegno infernale che emette esplosioni causate da ugelli a gas comandati da una tastiera e modulate da tubi di diversa dimensione come canne di un organo mostruoso. Nell’apprezzamento del pubblico, in particolare giovanile, anche il linguaggio crudo e le scene irriverenti. Nonostante abbia partecipato a trasmissioni televisive (in Italia con Piero Chiambretti) mal si adatta ai meccanismi dell’industria dello spettacolo ed esercita il teatro nella strada, nelle piazze, nelle discoteche ed in tutti gli spazi dove possa entrare in contatto con il pubblico distante dalle platee classiche che coinvolge con una comicità aggressiva.

Dopo avere vissuto a Milano, si sposta in Spagna e degli anni Novanta è uno dei suoi spettacoli di maggior successo, “Instintos Ocultos”, nel quale perfeziona la sua arte di manipolare le sensazioni del pubblico. Già negli anni precedenti nel numero della “piramide” convinceva alcuni partecipanti presi a caso tra il pubblico a recitare delle parti che venivano loro comunicate da una registrazione in cuffia mentre il pubblico li credeva preda di un’ipnosi paranormale; così asserendo che oggi si passa una gran parte del proprio tempo davanti ad uno schermo, computer, TV o telefono con la conseguente distorsione della realtà, Leo Bassi sfrutta questi meccanismi per confondere la logica e far credere l’incredibile. Nei suoi spettacoli successivi, “La Vendetta”, “Golf”, “12 Settembre”, Bassi dimostra una maggiore attenzione a temi politici ed ambientalisti.

Grazie alla capacità di dialogare in molte lingue, Leo Bassi calca le scene internazionali confermando il nomadismo insito nelle sue origini circensi. Schierato come uomo di circo, giullare e buffone è impegnato attivamente rispetto alle tematiche dell’ambiente e contro la globalizzazione dichiarandosi una sorta di “… don Chisciotte che tenta di cambiare il mondo a suon di cazzate, lanciato contro la politica e la piccola borghesia scema…” Lo spettacolo “La Revelacion” (2008) è un proclama contro i falsi miti della religione, e un tributo alla ragione e a scienziati, filosofi e artisti. Il suo ultimo spettacolo si chiama “Utopia”.

leo-bassi

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Maurizio Cattelan “Spermini”

Postproduction

Come l’arte riprogramma il mondo

2004

di Nicolas Bourriaud

A partire dai primi anni Ottanta molti artisti creano opere d’arte sulla base di opere già esistenti. Non si tratta più quindi di elaborare una forma sulla base di un materiale grezzo, ma di lavorare con oggetti che sono già in circolazione sul mercato culturale. I concetti di originalità e di creazione svaniscono in un panorama culturale dominato da nuove figure come il DJ e il programmatore, entrambi capaci di selezionare oggetti culturali e includerli in nuovi contesti.

La supremazia della cultura dell’appropriazione tende ad abolire il diritto di proprietà delle forme e a favorire un’arte della postproduzione, attraverso la quale gli artisti inventano nuovi usi per le opere del passato e operano una sorta di editing delle narrative storiche e ideologiche.

postproduction

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Alejandro Jodorowsky “El-Topo”

Carlo Giacomini

(Sale, 29 novembre 1840 – Torino, 5 luglio 1898) è stato un medico, antropologo e anatomista italiano.

All’inizio della sua attività scientifica condusse studi clinici con il fisiologo Angelo Mosso (1846-1910) che portarono alla prima registrazione delle pulsazioni cerebrali nell’uomo [1]. Fra le sue prime ricerche si annoverano gli studi sulle anomalie nervose della mano e la circolazione venosa degli arti inferiori e arteriosa degli arti superiori. Sono suoi alcuni reperti anatomici per ciò che concerne la topografia cardiaca: le cosiddette vertebre del Giacomini (dalla quinta vertebra toracica all’ottava) sono un limite dorsale del cuore. Dal 1882 seguì in maniera approfondita lo studio della morfologia cerebrale: descrivendo il lobo limbico, una parte della circonvoluzione dell’ippocampo porta oggi il nome di banderella o limbus del Giacomini; ne dedusse un’opera completa sulle circonvoluzioni cerebrali (1882). Non per ultimo, condusse studi antropologici correlando le varie circonvoluzioni cerebrali alle diverse razze dimostrandone la grande varietà: questo contrastò le convinzioni dell’antropologo-criminologo Cesare Lombroso. Nel 1886 descrisse per primo un’anomalia della giunzione cranio-vertebrale, chiamata Os Odontoideum, e intuì che tale anomalia poteva alterare la motilità del passaggio cranio-spinale anticipando il concetto di instabilità vertebrale [1]. Nel 1871 fu eletto socio della Reale Accademia di medicina. Nel 1876 assunse la direzione del Gabinetto di Anatomia Umana dell’ateneo torinese e nel 1887 divenne socio dell’Accademia delle Scienze della stessa città.

Per volontà testamentaria il suo scheletro fu esposto assieme al suo cervello presso il museo di anatomia umana Luigi Rolando di Torino. Il cervello ai piedi dello scheletro fu preparato con una tecnica conservativa da lui messa a punto. Giacomini stesso donò, quando era ancora in vita, la sua collezione craniologica allo stesso museo: centinaia di encefali di diverse dimensioni sono tuttora esposti in bacheca.

Scheletro Carlo Giacomini

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Robert Bresson “Au-hasard-balthazar”

Differance

 

Scrivere un libro significa immergersi, affogare in esso.

Vivere in esso e farlo vivere in me, allontanado sempre più il suo compimento.

Una lotta cruenta con il primato di presenza.

Un tentativo di distacco dal frutto dell’atto.

Iniziare un’azione sapendo che questa non si concluderà.

 

Portare a compimento un’opera è volgare.

È consigliabile vivere nel finito infinito

 

L’arte ci offre questa grande possibilità: considerare che le opere siano continuamente ancora da farsi, siano insature, incomplete.

 

L’opera si dà nel lavoro di differimento.

 

www.differance.eu

differance

Antifragile

Prosperare nel disordine

Nassim H. Taleb

Questo libro offre una nuova visione del mondo. La prospettiva che cambierà le nostre idee sulla società e ispirerà le nostre scelte quotidiane. Ci aiuterà a comprendere come il nostro corpo si protegge dalle malattie e le specie viventi si evolvono, come la libertà d’impresa crea prosperità e il genio si trasforma in innovazione. La chiave di tutto è l’antifragilità. Sappiamo che la nostra incapacità di comprendere a fondo i fenomeni umani e naturali ci espone al rischio degli eventi inaspettati. Ma l’incertezza non è solo una fonte di pericoli da cui difendersi: possiamo trarre vantaggio dalla volatilità e dal disordine, persino dagli errori, ed essere quindi antifragili. Medicina, alimentazione, architettura, tecnologia, informazione, politica, economia, gestione dei risparmi: sono solo alcuni dei campi di applicazione pratica in cui Nassim Nicholas Taleb ci accompagna, con l’ironia e la verve polemica che lo hanno reso celebre. Attingendo da uno sconfinato repertorio di episodi storici, fenomeni biologici e naturali, curiose esperienze personali, unendo la logica alla scettica saggezza degli antichi e allo spirito pratico dell’uomo della strada, Taleb è riuscito nel tentativo di creare una guida eclettica, scanzonata e iconoclasta per orientarsi in un mondo imprevedibile e dominato dal caos, il mondo del Cigno nero.

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Martin Creed  “Work N° 701”

Ilija Soskic

 

 

Nato in Jugoslavia, nel 1935, alla fine degli anni sessanta Ilija Soskic si sposta in Italia, prima a Bologna e poi a Roma. Nel corso degli oltre cinque decenni della sua carriera ha fatto della performance la sua prevalente espressione artistica. Dal 1967, il lavoro di Ilija Soskic esplora e testa, usa la memoria con sensibilità e critica come elemento cruciale, lasciando l’immaginazione dello spettatore come elemento partecipativo calcolato. In questo modo, le sue “proposizioni” (pubbliche e non) diventano depositi per le esperienze. Ultimamente Ilija Soskic, “il più raffinato analitico delle alterazioni che hanno coinvolto l’arte contemporanea” (Marina Grzinic), ha partecipato a diverse rassegne, imponentemente critiche:

Grammar of Freedom, Garage Museum of Contemporary Art, Mosca (2015); Bone Festival di Action Art, Berna (2013); 1° Venice International Performance Art Week, Palazzo Bembo (2012); Biennale di Venezia MACOC Padiglione Montenegro (2011);

La (im)potenza dell’immagine, BELvue Museum, Bruxelles (2010); Mostra Internazionale del Cinema di Venezia (2002); Il Reale Il Disperato L’Assoluto, Forum Stadtpark, Graz (2001); Body and the East al Museo d’Arte Contemporanea di Ljubljana (1998-2001); … 24 x 24 ore, L’Attico, Roma (1975).

Ilija-Soskic

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Alex Prager  “Compulsion” 2012

www.alexprager.com

Processione Del Popolo Funesto

 

Sabato 7 dicembre 2012 Ore 21:00

Montagano CB

 

Noi condannati dal “dolce Oblio” alla lucidità e alla profondità, Non siamo Né il problema Nè la soluzione.

Né con DIO Né con LUCIFERO!!!

Abbiamo la “bile nera” ed anche il nostro umore è nero

La nostra bandiera è uno stato d’animo.

 

La nostra tristezza è tutt’altro che inconsapevole

Noi non ci arrendiamo passivamente al vivere

Noi non ci adattiamo agli avvenimenti esterni con la convinzione che non ci riguardano

Noi prendiamo l’iniziativa!!

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Christian Rizzo

Sophie Calle (Parigi, 9 ottobre 1953) è un’artista francese.

 

 

Nel 1973 decide di partire e girare il mondo. Nel 1978 fa rientro nella sua città, dove si dedicherà alla fotografia, passione nata durante il suo lungo viaggio. Al ritorno però la sua vita è cambiata, lei stessa racconta di come si trovò senza amici, lavoro e niente da fare. Fu forse proprio questa condizione emotiva e sociale a portarla ad osservare le persone che la circondavano, con una curiosità morbosa che divenne quasi ossessione.

Nella poetica di Sophie Calle, già si delinea nella descrizione della sua biografia, la vita si trasmette nelle opere, l’artista vive e crea in simbiosi. È narratore, regista e attore. I suoi progetti nascono dalla sua vita, coinvolgendo in modo arbitrario anche altre persone senza molti riguardi per la loro vita privata. Dà molto rilievo alla propria vita intima su cui gioca e racconta, divenendo il filo conduttore delle sue opere. La propria interiorità viene esposta al pubblico in modo provocatorio, senza alcuna premura per i segreti della sua anima. Sophie ha una personalità spiccatamente originale, dalle mille trovate che le hanno permesso di realizzare, con un approccio del tutto personale, le sue installazioni multimediali, coniugando narrativa, video, foto, interviste e spettacolo, ed è questo che l’ha fatta conoscere e ammirare come personaggio e considerare come un simbolo dell’arte contemporanea. Di lei, Beppe Sebaste (l’Unità 27 gennaio 2004) scrive: “Le idee sono nell’aria, quindi sono di tutti. Ma l’unico tratto che distingue oggi l’arte dagli altri oggetti e pratiche della vita più o meno ordinaria è la firma, dalla cui “istituzione” dipende ogni ulteriore valorizzazione estetica. Catturare le idee e poi ridistribuirle come pezzo del proprio vissuto soggettivo: è il tratto costante e comune delle opere concettuali di Sophie Calle. Ossia fare del mondo, di ogni cosa del mondo, la propria autobiografia. In fondo è un’operazione squisitamente filosofica, non molto diversa, ad esempio, dal Discorso sul metodo diCartesio.” È anche l’essenza di ogni vocazione letteraria. Il voyeurismo concettuale e autobiografico di Sophie Calle – che tanti imitatori ha avuto in questi anni con la diffusione del genere “documentario” nelle arti visive e nel cinema – consiste nell’essere insieme autori e attori della propria opera.

sophie calle

Roman Opalka, -27 Agosto 1931, 6 Agosto 2011 – Artista Polacco

Nel 1965, nel suo studio di Varsavia, Roman Opalka (1931-2011) inaugurò il suo progetto di vita: OPALKA 1965/1-∞, un lavoro con il quale l’artista ha votato la sua esistenza al tentativo di intrappolare lo scorrere del tempo. Si tratta di un processo che consiste nel dipingere su tele, tutte chiamate “Detail” di dimensioni sempre uguali (196×135 cm) con il colore bianco la numerazione progressiva crescente di numeri razionali interi dall’1, all’infinito.
Da allora, le cifre sono cresciute fino a superare i 5.000.000, tela dopo tela, mentre il fondo si schiariva progressivamente avvicinandosi al bianco con cui è tracciato il numero.
Opalka riflette le correnti artistiche concettuali, minimaliste, antiallegoriche, tendenti al monocromo e all’essenziale e il pensiero sul tempo dei decenni post-bellici, con le ricerche matematico-filosofiche sugli infiniti.
Muore 5 anni fa, nel 2011, e blocca la sequenza di numeri al 5,607,249, ma si racconta che in realtà l’ultimo numero sia stato un 8, l’infinito rovesciato.
«Tremando per la tensione davanti alla follia di una simile impresa, immergevo il pennello in un vasetto e, sollevando leggermente il braccio, lasciavo il primo segno, 1, in alto a sinistra, all’estremità della tela, perché non rimanesse nessuno spazio fuori dall’unica struttura logica che mi ero dato».
Al progressivo sbiadire delle tele (per la quantità sempre maggiore di bianco posto sullo sfondo) corrisponde lo sbiadire di un volto scavato e logorato dalla vecchiaia. L’artista infatti darà anche inizio, nel 1972 a una serie di ritratti in cui si fotografava sempre allo stesso modo: sguardo fisso, frontale, inespressivo. La decisione di fotografare il suo volto nacque – come lui stesso dichiarò – «dall’imperiosa necessità di non perdere nulla nel carpire il tempo».

“These obsessions—death, disappearance, the irreversibility of time—are difficult, courageous, suicidal. In fact, my attitude has been likened to suicide, sacrifice. People have often thought I was the prisoner of my idea. In fact, I just couldn’t do anything else.”

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Abraham Poincheval

L’Arte Fuori Di Sè

Andrea Balzola, Paolo Rosa

2011

Feltrinelli Editore – 219 pag

L’arte è fuori di sé perché sta vivendo una crisi d’identità senza precedenti, ingabbiata in un sistema autoreferenziale per addetti ai lavori, pilotato più da logiche di mercato e di immagine che da una sincera ispirazione, lontano dal vissuto e dalle sensibilità della gente.L’arte è fuori di sé perché sono esplosi tutti i codici e i confini. Il pubblico e gli stessi studiosi faticano a valutare che cosa sia arte e cosa non lo sia, e molti la confondono con la pubblicità, il design, la comunicazione, o con la mera replica di frammenti di realtà. Ma l’arte è fuori di sé soprattutto perché la rivoluzione digitale ha generato una trasformazione antropologica dei comportamenti e delle relazioni sociali, che incide profondamente sull’identità dell’arte e sul ruolo dell’artista. L’arte che esce da sé, in senso positivo, può svolgere una funzione simbolica e pratica di antidoto alle patologie dell’età post-tecnologica, spostando il baricentro dalla creazione individuale a quella collettiva, dall’opera compiuta al processo aperto, dalla centralità dell’artista “genio” allo spettatore, con una circuitazione totalmente diversa, gratuita e molto più partecipata degli eventi artistici.

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Berlino: le dimissioni di BLU

Di Sandro Veronesi in La Repubblica del 19/02/2010

Pensando a J. D. Salinger mi viene in mente una cosa che ha detto Diderot nei suoi diari: ognuno, ha detto Diderot, si costruisce una statua interiore, e lo fa nel momento peggiore della propria vita, l’ adolescenza, quando non sa ancora nulla di sé né del mondo, e non ha la minima idea di come si costruisca una statua – e poi passa il resto dei suoi giorni a cercare di somigliarle. Se gli va bene arriva il momento in cui se ne rende conto e comincia a demolirla, ma è impossibile sbarazzarsene del tutto, ed è per questo che nessuno riesce mai a essere felice. E’ un pensiero strano, per Diderot, ma mette a fuoco per la prima volta ciò che un secolo e mezzo dopo la psicanalisi si occuperà di dimostrare; soprattutto, è l’ immagine della statua a colpire, così folgorante, così pesante, così diversa dalle amniotiche metafore freudiane. Conduce, quella statua, direttamente al concetto di un micidiale totalitarismo interiore, monumentale, per l’appunto, e intransigente, che si insedia proprio nell’ età più innocente e continua a dominare sulle altre. E’ potente, quell’immagine; è felice: e mi viene sempre in mente pensando a J. D. Salinger. Mi sono domandato perché. Ho trovato due risposte, buone tutt’ e due, secondo me, anche se sono l’una la negazione dell’ altra. La prima: perché Salinger, in fondo, non ha fatto altro che ritrarre gli esseri umani nel mo-mento in cui se la stanno costruendo, questa statua interiore. Tutti quei ragazzini infelici e rabbiosi, alle prese con quella furiosa esigenza di uscire dall’invisibilità che li avviluppa, di darsi un ruolo. In fondo è proprio quello, io credo, che Diderot intende per statua interiore: assegnarsi un ruolo nel mondo, quel ruolo, deciso una volta per tutte quando non si ha ancora idea di quale sia la commedia. La seconda ragione, però, ribalta la prima: pensando a Salinger mi viene in mente la statua interiore di Diderot perché le sue pagine contengono una carica sovversiva che tende a demolire ogni cosa consolidata, e rinfocola la speranza di cambiare il mondo dal di dentro. E’ la vecchia differenza che passa tra ribellione e sovversione. Personalmente non sono mai stato attratto dalla ribellione, mentre trovo la sovversione molto interessante. Significa piazzarsi nel cuore del sistema e da lì, senza uscirne, cominciare a bombardarlo. Significa sputare sul piatto in cui si mangia, e anche, se necessario, segare il ramo su cui si è appollaiati. Be’ , Salinger ha fatto questo. Ha sovvertito valori, sputato su piatti, segato rami, ha disorientato, indebolito e, alla fine, ha sconfitto un conformismo molto radicato nel suo paese – e questo non trangugiando droghe leggendarie e fottendosene della legge dalla mattina alla sera, ma raccontando sul New Yorker di ragazzini borghesi con problemi affettivi. E forse è il caso di tornare al tempo in cui l’ ha fatto, per capire quante statue ha buttato giù. Prendiamo questo dialogo tra il fratello di Selena e Ginnie in Alla vigilia della guerra contro gli esquimesi: «- Senti. Le ho scritto otto porche lettere. Dico, otto. Non ha risposto nemmeno a una, che è una. Ginnie esitò. – Be’ , forse aveva da fare. – Già, da fare. Daffare come una porca formica. – Ma c’ è proprio bisogno di dire tante parolacce? – chiese Ginnie. – Un bisogno porco». Poi prendiamo un brano della stroncatura ai suoi libri, ap-parsa nel 1962 sulla Partisan Review a firma di Leslie Fielder: «Ci troviamo – comincio lentamente a capire – nel bel mezzo di una rivoluzione del gusto, di una radicale trasformazione del grande pubblico dei lettori americani… un pubblico formato per la maggior parte da adolescenti. Controllando il mercato (si pensi che è soprattutto per arrivare a loro che nuove generazioni di editori, di loro poco più vecchi, hanno inventato e diffuso i nuovi e costosi paperback in veste tipografica rinnovata) essi controllano anche la moda. E la moda esige, al posto dei romanzieri adolescenti che per un motivo o per l’ altro non vogliono comparire, gli Interpreti di Adolescenti, tra i quali potremmo annoverare…». “Rivoluzione”, “radicale trasformazione”, sono parole che il sistema non ha mai opposto a Lawrence Ferlinghetti o a Alexander Trocchi o a Hunter Thompson: quelli li combatteva più efficacemente arrestandoli. Salinger era più pericoloso di loro, perché era borghese, irreprensibile, vestito di Harris tweed, e sovversivo. E il suo talento soffiava così forte, ed era così prodigiosamente intriso del proprio Zeitgeist, e ne interpretava il bisogno di cambiamento con tale naturalezza, da generare nel gusto popolare quella rara ispirazione che ogni tanto fa veramente prevalere il meglio sul peggio, e produce un successo di proporzioni talmente colossali da risultare esso stesso una rivoluzione – e spazza via tutto ciò che gli si para davanti, statue interiori comprese.

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Provvidenti (CB): Gledys Zuniga- Michele Mariano- Christian Rainer- 70 Palloni, 70 musicisti, 70 abitanti. Immagine Pasquale Modica